Un grande artigiano della lingua italiana, nostro contemporaneo,
ha detto una volta parlando alla gente in una piazza di Roma:
"Se non di questo movimento di milioni, di decine di milioni di esseri umani sulla faccia della Terra,
io non so di cosa debbano parlare i libri di Storia in questo secolo."
Ora io non sono uno storico, né uno scrittore come Erri De Luca,
ma sono convinto di alcune cose: che non esistono razze, ovviamente, ma popoli che si incontrano;
che il movimento non può essere fermato dalla nostra paura;
che ciascuno ha diritto a cercare altrove la propria felicità,
se là dove è nato gli è reso impossibile: lo farei anch'io, a e tutti i costi;
che l'arretratezza secolare di intere regioni e la condanna alla miseria per sterminate comunità,
sono conseguenza diretta del mio - anche mio - millenario privilegio;
che sono quarantamila anni che l'Umanità si rimescola su tutti i continenti,
e ciò è stato finora la sua salvezza e la sua ricchezza;
che l'egoismo, la grettezza e l'ipocrisia sono gli unici peccati di cui qualcuno, la Storia, ci chiederà conto.
Fin qui, l'ideologia.
Le Predelle della Migrazione - racconti brevi - sono quel che penso sul punto dello spostamento dei Popoli
e su altro, come lo spostamento degli equilibri consci e inconsci all'interno di ognuno,
per esempio dal punto di vista di Roma.
Anzi, sono ciò che penso quando smetto di pensarci. E comincio a vedere.
Paolo Andreozzi
ha detto una volta parlando alla gente in una piazza di Roma:
"Se non di questo movimento di milioni, di decine di milioni di esseri umani sulla faccia della Terra,
io non so di cosa debbano parlare i libri di Storia in questo secolo."
Ora io non sono uno storico, né uno scrittore come Erri De Luca,
ma sono convinto di alcune cose: che non esistono razze, ovviamente, ma popoli che si incontrano;
che il movimento non può essere fermato dalla nostra paura;
che ciascuno ha diritto a cercare altrove la propria felicità,
se là dove è nato gli è reso impossibile: lo farei anch'io, a e tutti i costi;
che l'arretratezza secolare di intere regioni e la condanna alla miseria per sterminate comunità,
sono conseguenza diretta del mio - anche mio - millenario privilegio;
che sono quarantamila anni che l'Umanità si rimescola su tutti i continenti,
e ciò è stato finora la sua salvezza e la sua ricchezza;
che l'egoismo, la grettezza e l'ipocrisia sono gli unici peccati di cui qualcuno, la Storia, ci chiederà conto.
Fin qui, l'ideologia.
Le Predelle della Migrazione - racconti brevi - sono quel che penso sul punto dello spostamento dei Popoli
e su altro, come lo spostamento degli equilibri consci e inconsci all'interno di ognuno,
per esempio dal punto di vista di Roma.
Anzi, sono ciò che penso quando smetto di pensarci. E comincio a vedere.
Paolo Andreozzi
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- La testa
- Tiresia
- Una piccola odissea
- Nessuno sa dove
- Una coppia meravigliosa
- Cecilia e la ghirlanda
- Come legno di viola
- Incessati spiriti
- Cicloversi del Danubio
- Il cerchio del mare
appendice: Tutte le Poesie
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La testa
Questa è la storia di un migrante.
Anzi: è solo un pezzo della sua storia.
Facciamo che sia la testa, anche perché qui dentro tutto il corpo non c’entra.
Comunque lui, il migrante, scende da monti a nord di una penisola bitorzoluta del Mediterraneo.
Scende seguendo un fiume imponente e tranquillo, e arriva al mare.
Un altro, non il Mediterraneo: uno più piccolo.
Si è mosso da quei monti insieme alla sua gente.
Ha dovuto farlo, perché lì erano arrivati altri più scorbutici di loro e li hanno sloggiati.
E questi salivano lassù da terre da cui prima li avevano cacciati tipi ancora più ruvidi, che vennero da sud, da dove li avevano spinti via degli altri, sempre diversi, che ancora prima erano stati vicino al mare.
Anzi: davanti a un oceano.
Finché li costrinsero ad andarsene i pirati, forse: nessuno più se lo ricordava bene.
Un domino di arrivi e di spintonamenti, sì, che a vederlo da sopra sembra un cerchio.
Lungo mezzo secolo.
Fatto sta che lui, il migrante, salpa coi suoi.
E dei pirati non si preoccupa.
Dopo un po', attraversa uno stretto ed entra nel Mediterraneo vero e proprio, anche se non è così che lo chiama.
Per inciso: nessuno gli dà ancora questo nome.
Andando sempre verso sud, poco avanti i vascelli accostano alla terra.
Ignota, ma non ostile: si fermano, e loro tutti sbarcano.
Però quella costa si rivela davvero desolata.
Più si allontanano dalla riva e meno i segni della vita gli si mostrano.
Anzi: piuttosto sono resti di morte, quelli che vedono e che calpestano.
Grossi bracieri incrostati, aste ammuffite conficcate nelle erbacce, qualche lama spezzata, stracci di tela, pezzi di cuoio, palizzate divelte.
E ossa, fradice, di cavallo o toro.
O di uomini.
E anfore, ma rotte.
E sopra la cima di chiome stentate, l’aria opaca di una caligine che sa di sangue.
Dietro le rocce il mare riappare, ma di una baia cupa.
E a un approdo naturale: alcune navi mezzo affondate, con gli alberi maestri spaccati come rami.
Lo spettacolo vero è sul colle alle spalle della rada: una città, o quel che ne resta dopo un incendio, o un assedio.
Forse un terremoto.
Di sicuro dopo una lunga agonia, finita da poco.
Delle mura c’è ancora qualche troncone, alle porte l’architrave è saltato, delle case le fondamenta annerite.
E il palazzo che forse un tempo dominava il resto, non è che un arto mozzo con l’unico spalto integro puntato a un cielo acido.
Nella piazza centrale, solo manufatto ben conservato ma adagiato su un fianco come se dormisse innaturalmente: un enorme cavallo di legno.
Il migrante, con la sua famiglia e qualcun altro, capisce che è ora di tornare alle imbarcazioni per proseguire il viaggio.
Portando con sé il poco d’utile, magari: legna, per le riparazioni.
E invece per altri dei suoi la traversata termina là.
- Qualunque cosa sia successa qui, è finita - dice uno
- E a questa terra lasciata libera e a queste mura ben squadrate daremo noi vita nuova. Basta mare: vogliamo radici.
I due gruppi si salutano senz’altre pretese di unità: ogni capofamiglia è re.
Soltanto, danno materia a un mito del legame: risollevato il cavallo, chi resta avrà le zampe e il corpo, e il collo e la testa chi va via.
Legno da non bruciare, da non toccare.
Fino all’impossibile ricongiunzione.
Poi lui riparte, con metà del suo vecchio popolo.
Con tutto il suo nuovo.
Seguendo il sole che tramonta e poi su verso nord, da vascelli e villaggi costieri razziano l’indispensabile: fatti loro pirati, dal mare.
E quando il tempo giunge sbarcano su una riva profumata, in un’aurora fresca dell’ombra di colline scure, dalla natura ricca e solitaria.
Davanti a sé, adesso, il migrante ha il mare di ponente cui darà nome con la propria gente, e a fianco una donna che gli dice
- Vieni, restiamo qui. Siamo tornati dove non fummo mai: a casa nostra.
La storia del migrante, di Lars, si conclude così: in quell’abbraccio, in quelle ancore gettate, in quei campi poi dissodati, nelle cave sotto il cielo, nelle opere di difesa, nei riti, negli anelli, negli archi, nelle stirpi e nei sarcofagi.
Finisce questa storia, e comincia una civiltà.
Si mossero e si urtarono in parecchi, allora: i Dori, i Lidi, i Filistei, gli Aramei, gli Assiri e i nostri Traci.
I Micenei e i primi Hittiti scomparivano, e gli Egizi cambiavano ancora dinastia.
Insieme alle mura di Troia vennero giù anche quelle di Babilonia e di Hattusa, ma in compenso si alzarono le colonne a Karnak, per esempio, e gli ultimi dolmen di Stonehenge.
Solida pietra.
Solida come il tufo delle arcate etrusche.
Di quel cavallo di legno, invece, oggi non resta una sola scheggia.
Da una parte come dall’altra dei mari.
E c’è ancora una cosa.
Quattrocento anni dopo la partenza di Lars il Trace, quasi da quegli stessi monti ma lungo un fiume meno importante del Danubio, l’Erebo, scendeva fino al mar Nero un altro uomo.
Anzi, veramente a scendere era solo la sua testa, proprio, staccata da donne ubriache e indispettite dalla sua pena d’amor perduto.
Era la testa di Orfeo, che cantava inconsolabile la fine di Euridice.
Un altro migrante.
O meglio trasmigrante, nell’intricata giungla delle vite da una generazione a quella successiva.
E da libro a libro.
Ma questa, certo, è un’altra storia.
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Tiresia
tudz(v-vt-v)tltc
Hai presente una foto con l'obiettivo macro?
Di quelle che stai così vicino che non si capisce niente? Di solito le fanno ai fiori, e il pistillo sembra uno di quei divanetti psichedelici ma che, non si sa perché, sta in bilico su una cannuccia lunga il triplo di quant'è largo. Oppure la scattano agli insetti: con l'occhio di una mosca, metti, che diventa come la cupola di una centrale atomica, però di bronzo. Ce l'hai presente?
Be', questa qui veramente è una diapositiva. Ma fa uguale.
Si vede tutta una superficie gialla. Vernice, direi, ma non è stesa bene. Cioè, magari l'avranno pure data compatta, quand'era, carica e lucida. Adesso però è stinta, con le rughe e mezza mangiata. C'è uno spacco, verso la diagonale della foto: pare un solco, un'accettata. E dentro c'è il legno grigio scuro, e la polvere grossa così, che vuol dire che s'è spaccato dopo che l'hanno verniciato.
Che hanno verniciato che? Boh. La luce è abbastanza di striscio, perciò si vedono le scaglie di giallino che non combaciano più tanto, coi bordi un po' rialzati e le ombre proprie. Dal vero saranno solo placche minime, scheggette: qui sembrano le risaie a terrazzo in Vietnam viste con gli occhiali antinebbia.
Non si capisce nient'altro. A parte, forse, un minimo di curvatura, da sinistra a destra. Ma giusto perché a sinistra sul giallo pallido si vede ancora un po' di lucido, e a destra no, e uno per far vedere una curvatura la disegnerebbe proprio con questo trucco. Ma io non so disegnare: meglio la fotografia. Che ci si capisca qualcosa, però.
tudz(v-vt-v)tltc
Un'altra diapositiva. Che è? Un palo, sembra.
Ci avevo preso: il giallo di prima è il legno verniciato del palo. Che è curvo per così, come tutti i pali.
Questa non è una macro. L'avrà fatta sì e no da un metro, con un obiettivo appena grandangolare: facciamo un 36. Un grandangolare vero sarebbe già un 28, che ti fa entrare nella foto tutta la facciata di una chiesa, metti, pure se non c'è tanto spazio per andare indietro. Per dire: la Cattedrale di Corfù non la prendi mica tutta senza grandangolare, neanche se vai all'angoletto in fondo alla via e ti sdrai per terra. Col 28 sì, comodamente. L'esagerazione del grandangolo, poi, è l'occhio-di-pesce. Quello dei matrimoni, a chi piace: fa la foto bombata, una mezza palla su fondo nero che non si capisce tanto neanche quella. Però fa effetto. Stile Anni '70.
Comunque, questo è un pezzo di palo. Un po' più di mezzo metro di palo di legno tinto giallastro, che va dall'altro al basso della diapositiva. Cioè: ce n'è ancora di palo, sopra e sotto l'inquadratura, ma appunto non si vede. E in alto è appena un po' più largo che in basso. Strano.
La luce viene da sinistra, radente, l'avevo detto. E allora vuol dire che: o è quasi il tramonto e sullo sfondo ci sta più o meno il Nord, o è passata da poco l'alba e laggiù è verso Sud. Nord o Sud, laggiù è troppo sfocato e non si vede bene. Praticamente, solo che a mezz'altezza c'è la linea dell'orizzonte: finisce la terra, un brunito mischiato, e comincia il cielo azzurro intenso.
Bella foto. Calda, ma non so che vuol dire. Le squamette di vernice e i tagliuzzi sul legno chiaramente non si vedono più tanto.
E mi sa che la prossima si è allontanato ancora un po'. Vado col pulsante del carrellino.
tudz(v-vt-v)tltc
Infatti.
Ma è un remo! Infilzato per terra.
Be'.
Allora: il palo non è un palo ma è un remo, verniciato giallino stinto e con la luce di traverso. Sta dritto, piantato per terra con la pala in alto, quella che di solito spinge l'acqua. Sta su una specie di gobba del terreno, forse l'hanno preparata apposta oppure c'era già e ce l'hanno piantato sopra.
Però ho detto male: la pala del remo non spinge l'acqua, di solito. E' il remo che spinge la barca, sempre. Questa me la ricordo: l'acqua sta ferma perché è il fulcro della leva, la barca è la resistenza e il braccio dell'uomo è la potenza. La potenza tramite il remo si scarica sullo scalmo che è inchiodato alla barca, la pala del remo è inchiodata nell'acqua, io tiro il braccio e la barca scorre sull'acqua. Remo, leva di secondo genere, programma di prima liceo.
E' che l'ho fatto due volte, colpa di un'infame di matematica che mi aveva preso di mira e m'ha fatto bocciare. L'anno dopo però ho cambiato sezione, dove insegnava un'amica di mamma, ed è andato tutto bene fino ad ora. Pensare che prima, mai avuto problemi. Va bene che letteratura, greco, storia e geografia, tra medie e ginnasio giocavo proprio in casa.
Comunque. C'è questo remo in piedi al centro dell'inquadratura, e stavolta è tutto bene a fuoco. Ha stretto il diaframma, per forza. Per avere più profondità di campo, così sono nitide le cose vicine e pure quelle lontane: facile, con la luce buona. Basta ricordarsi che il diaframma è più chiuso quando il numero che lo indica è più grande: un 16, un 19. Numero di diaframma piccolo, diciamo un 5.6, vuol dire diaframma largo: viene a fuoco solo il soggetto principale, il resto no. Con poca luce però non si può chiudere troppo, sennò il tempo dello scatto si allunga e la foto viene mossa, e allora serve il treppiede. Ma nei musei, per dire, non te lo fanno usare.
Qui però la luce basta, e poi un museo non c'è proprio. Quindi.
Ancora non significa un granché, però belle le nuvolette basse biancorosa. L'orizzonte non è proprio dritto: c'è un po' di crestoni e qualche sagoma scura, che non si distingue bene.
Aspetta. Laggiù c'è qualche uomo. Due persone, un po' sulla destra. Sembrano in posa per la fotografia, però lontanissime. Strano tanto. Quella a sinistra potrebbe essere una donna, forse. Vabbè che è a fuoco, l'ho detto, ma sono troppo piccoli lo stesso. E se mi avvicino all'immagine mica vedo meglio, anzi: mi si sgrana tutta sui buchetti dell'intonaco a buccia d'arancia, stile Anni '80. L'ha voluto papà, il muro così. Allora compra un ricco telo per le diapositive, dico io, che stai sempre a viaggiare, fai un sacco di rullini, e così te le rivedi e ce le rivediamo come Cristo comanda. Senza mettere e togliere i quadri dal muro, e leva e metti l'enciclopedia sotto il proiettore e sposta il tavolo e chiudi la finestra e 'sto muro non va bene. Che ti passa la voglia. Glielo dico, e lui risponde sì. Ma saranno anni.
Insomma ci stanno due persone, lì. In posa, e non si capisce il perché. Boh. Passo all'ultima.
tudz(v-vt-v)tltc
Cavolo! E' PAPA'.
Nettamente.
E' quello a destra. Col berretto da rapper, come lo portava prima. Capelli lunghi, barbaccia, cento denti, casacca smanicata a pelle, vello in vista, jeans da scavalco, scarpe da basket.
E' proprio lui. Selvatico.
E m'ero sbagliato: vicino non c'è una donna. C'è tipo un beduino, con un barracano caffè fino sopra la nuca. Sul viso ha la pelle cotta, il beduino, cogli occhi grandi e buoni e qualche buco tra i denti come l'arabo delle carte da Mercante in Fiera, quelle della Modiano.
Papà gli passa un braccio dietro le spalle, come tra due amici. Sorridono verso l'obiettivo. E che obiettivo: un signor tele! Sì perché la foto l'hanno fatta dallo stesso punto esatto di quella di prima. E si capisce dal fatto che tutta a sinistra in questa 'dia' qui c'è ancora una striscia verticale giallogrigia in primissimo piano, completamente sfocata. Che può essere solo un particolare del solito remo ficcato per terra: giusto così, per inquadrarlo sempre. Quindi, se prima le due figurine si vedevano appena sull'orizzonte e qui invece ci sono due uomini alti più di metà dell'altezza di tutta l'immagine, allora quest'altra foto l'hanno fatta con un bel cannoncino di teleobiettivo: forse proprio il 600 di papà. Che tiene in mano, mi pare, quel congegno che comanda tutto, anche l'autoscatto a distanza, puro Hong Kong Anni 2000 che verranno. Se l'è fatte da solo, le foto.
Be', allora era matto proprio: per questi due scatti si sarà fatto tre e tre sei volte dal remo all'orizzonte e viceversa, su quella specie di steppa rinsecchita, col sole che non scherza pure se è basso!
Capito? Porta l'arabo giù in fondo, torna indietro, sistema il treppiedi, inquadra, vai laggiù pure te, telecomando, clic, ritorna indietro, cambia l'obiettivo, inquadra un'altra volta, rivai giù in fondo, clic ancora, acchiappa l'arabo, pure lui un bel matto, ritorna ancora al remo, smonta tutto e via. Col fuoristrada che s'intravede qui a destra nell'ultima diapositiva, un cofano rosso lucente. E tutto perché? Solo per stupire un minuto chi se le fosse guardate tutte e quattro in sequenza. Come me ora.
Non doveva passarci proprio nessun altro, da quelle parti. Sennò non lasci tutta l'attrezzatura così e ti allontani di una chilometrata un paio di volte, con quello che costa. Un deserto, tipo, secco e vuoto.
Guarda! L'astuccio come quello di mamma... E' proprio uguale, è appeso al collo dell'amico beduino. Quello dove mamma tiene le sue foglie di tè, che quella fricchettona di zia Iftime ci legge il futuro. Papà gliel'avrà portato da questo viaggio. Non me lo ricordavo... Invece mi ricordo la classica discussione tra zia e mamma sulla faccenda della lettura di 'ste foglie, tipo questa:
“Va bene, Iftime, la scienza non la centra, la verità. Ci gira solo intorno, la sbircia...”
“E io che dico? Che è la poesia che arriva alla verità! E infatti io leggo la verità del non-ancora nella poesia del tè che danza...”
“Eh no, scusa. Tu non leggi la verità nel tè. Magari! Quello che fai tu è: guardare le foglioline sul fondo della ciotola, cercare sul manualetto la pagina con la figura che spiega quello che dice il tè quando si mette così e così, e fare un bell'oroscopo! E' un po' diverso dalla poesia...
“E' uguale, ti dico! Lo ammetti pure tu che la scienza non arriva dappertutto...!”
“E' diverso. Senti: da una parte la poesia cerca la verità, d'accordo, e dall'altra la scienza si accontenta diciamo dell'utile. Ognuna però col metodo suo, sennò non vale! La scienza si dà un obiettivo, fa un progetto, cerca le prove, butta giù una teoria, e se funziona dovrebbe essere utile ad aiutarci a campare meglio, concretamente. Sarà un po' troppo prosaico, terra terra se vuoi, ma meglio che niente. La poesia, invece, e l'arte tutta, e mettici pure la mistica, la religione, mettici pure l'erba già che ci siamo, o quello che ti pare, hanno l'ambizione di volare più in alto, giusto? Entrano... dovrebbero entrare in contatto con la bellezza, l'armonia, il sentimento, e direttamente con la verità da quest'altra strada. Però, dico io, dovrebbero riuscirci, e noi scegliendo questa strada anziché la scienza, dovremmo riuscirci, senza tante ricette e senza tante formule! Dovremmo volare e basta, con la poesia, a occhi chiusi e in silenzio, se ne siamo capaci... e non copiare dai manuali del perfetto spiritualista, di ogni epoca, provenienza e campo specifico. Sennò mi tengo le equazioni, i grafici, gli esperimenti di laboratorio e le enciclopedie! Non ti pare, sorellina?
“...Guarda che chi li scrive, i manuali della spiritualità, come li chiami tu, che poi sono i Maestri, di ogni tempo e disciplina, tutte queste cose le sanno. Loro i segreti li hanno studiati, a occhi chiusi e in silenzio. Però per farceli capire, per farli entrare dentro di noi...”
“Sì sì, però il segreto vero è un altro: che niente serve per quello che non ti può dare. Le dritte per campare, quelle, te le dà la medicina, la legge, l'informatica o che ne so. Beati loro invece i poeti e i maestri lavorano per l'estasi direttamente! Ma noialtri, macché estasi: noi andiamo là sotto alle loro sillabe a cercare i post-it del conto della spesa! Allora, scusa, ma se è solo per fare due più due e sentirmi meglio, l'arte e la mistica io le trovo un po' sprecate. Onestamente, scienza e coscienza, se non so volare, bastano e avanzano.”
“Bah. Sarai pure mia sorella ma sei così materiale, scettica...”
Be', scettica mia madre non direi proprio. Con tutte le volte che ha continuato a credere che papà tornasse, sempre. L'amore poi non è mai materiale, no? E infatti lui tornava.
Casomai è zia, che è sempre così diffidente, pigra. Vabbè.
Insomma, capito che roba! Le quattro diapositive misteriose... Ma mica lo so che ci stanno a fare da sole in fondo a questo carrellino. In più, stranezza estrema, sopra, al posto dell'etichetta autoadesiva, c'è questo foglietto con una specie di filastrocca scritta al computer:
Grazie alle orecchie per tutta la musica, per la voce del vento, del mare, del bosco e della gente
Grazie agli occhi per tutta la pittura, per il cielo di giorno e di notte, per il pensiero scritto, per gli spazi umani e non umani
Grazie alla memoria per ritenere di tutto e delle storie il più possibile
Grazie alla fantasia per ricombinare tutto senza posa, in veglia o in sogno
Grazie alla sorte per avere io fantasia e memoria e occhi e orecchie
Grazie alla lingua per dire questi grazie
Grazie all'amore che muove la mia lingua, le mie braccia e gambe
Grazie all'amore che le ricompensa in baci, e abbracci e passi insieme
Grazie all'amore che è il coraggio di sapere, di capire e di fare
Grazie alla vita
Mah, mah...
E tu va', Penelope paziente. Vai verso Odisseo tuo sposo, incontro al suo eterno ritorno.
Tiresia indovina il futuro celato agli Dei dell'aria, e l'eroe del lungo viaggio dà terra e carne al suo responso. Ancora. E ancora. E ancora.
Vieni, dolce Penelope. Il futuro è libero.
Il futuro si mette in posa.
clic
Hai presente una foto con l'obiettivo macro?
Di quelle che stai così vicino che non si capisce niente? Di solito le fanno ai fiori, e il pistillo sembra uno di quei divanetti psichedelici ma che, non si sa perché, sta in bilico su una cannuccia lunga il triplo di quant'è largo. Oppure la scattano agli insetti: con l'occhio di una mosca, metti, che diventa come la cupola di una centrale atomica, però di bronzo. Ce l'hai presente?
Be', questa qui veramente è una diapositiva. Ma fa uguale.
Si vede tutta una superficie gialla. Vernice, direi, ma non è stesa bene. Cioè, magari l'avranno pure data compatta, quand'era, carica e lucida. Adesso però è stinta, con le rughe e mezza mangiata. C'è uno spacco, verso la diagonale della foto: pare un solco, un'accettata. E dentro c'è il legno grigio scuro, e la polvere grossa così, che vuol dire che s'è spaccato dopo che l'hanno verniciato.
Che hanno verniciato che? Boh. La luce è abbastanza di striscio, perciò si vedono le scaglie di giallino che non combaciano più tanto, coi bordi un po' rialzati e le ombre proprie. Dal vero saranno solo placche minime, scheggette: qui sembrano le risaie a terrazzo in Vietnam viste con gli occhiali antinebbia.
Non si capisce nient'altro. A parte, forse, un minimo di curvatura, da sinistra a destra. Ma giusto perché a sinistra sul giallo pallido si vede ancora un po' di lucido, e a destra no, e uno per far vedere una curvatura la disegnerebbe proprio con questo trucco. Ma io non so disegnare: meglio la fotografia. Che ci si capisca qualcosa, però.
tudz(v-vt-v)tltc
Un'altra diapositiva. Che è? Un palo, sembra.
Ci avevo preso: il giallo di prima è il legno verniciato del palo. Che è curvo per così, come tutti i pali.
Questa non è una macro. L'avrà fatta sì e no da un metro, con un obiettivo appena grandangolare: facciamo un 36. Un grandangolare vero sarebbe già un 28, che ti fa entrare nella foto tutta la facciata di una chiesa, metti, pure se non c'è tanto spazio per andare indietro. Per dire: la Cattedrale di Corfù non la prendi mica tutta senza grandangolare, neanche se vai all'angoletto in fondo alla via e ti sdrai per terra. Col 28 sì, comodamente. L'esagerazione del grandangolo, poi, è l'occhio-di-pesce. Quello dei matrimoni, a chi piace: fa la foto bombata, una mezza palla su fondo nero che non si capisce tanto neanche quella. Però fa effetto. Stile Anni '70.
Comunque, questo è un pezzo di palo. Un po' più di mezzo metro di palo di legno tinto giallastro, che va dall'altro al basso della diapositiva. Cioè: ce n'è ancora di palo, sopra e sotto l'inquadratura, ma appunto non si vede. E in alto è appena un po' più largo che in basso. Strano.
La luce viene da sinistra, radente, l'avevo detto. E allora vuol dire che: o è quasi il tramonto e sullo sfondo ci sta più o meno il Nord, o è passata da poco l'alba e laggiù è verso Sud. Nord o Sud, laggiù è troppo sfocato e non si vede bene. Praticamente, solo che a mezz'altezza c'è la linea dell'orizzonte: finisce la terra, un brunito mischiato, e comincia il cielo azzurro intenso.
Bella foto. Calda, ma non so che vuol dire. Le squamette di vernice e i tagliuzzi sul legno chiaramente non si vedono più tanto.
E mi sa che la prossima si è allontanato ancora un po'. Vado col pulsante del carrellino.
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Infatti.
Ma è un remo! Infilzato per terra.
Be'.
Allora: il palo non è un palo ma è un remo, verniciato giallino stinto e con la luce di traverso. Sta dritto, piantato per terra con la pala in alto, quella che di solito spinge l'acqua. Sta su una specie di gobba del terreno, forse l'hanno preparata apposta oppure c'era già e ce l'hanno piantato sopra.
Però ho detto male: la pala del remo non spinge l'acqua, di solito. E' il remo che spinge la barca, sempre. Questa me la ricordo: l'acqua sta ferma perché è il fulcro della leva, la barca è la resistenza e il braccio dell'uomo è la potenza. La potenza tramite il remo si scarica sullo scalmo che è inchiodato alla barca, la pala del remo è inchiodata nell'acqua, io tiro il braccio e la barca scorre sull'acqua. Remo, leva di secondo genere, programma di prima liceo.
E' che l'ho fatto due volte, colpa di un'infame di matematica che mi aveva preso di mira e m'ha fatto bocciare. L'anno dopo però ho cambiato sezione, dove insegnava un'amica di mamma, ed è andato tutto bene fino ad ora. Pensare che prima, mai avuto problemi. Va bene che letteratura, greco, storia e geografia, tra medie e ginnasio giocavo proprio in casa.
Comunque. C'è questo remo in piedi al centro dell'inquadratura, e stavolta è tutto bene a fuoco. Ha stretto il diaframma, per forza. Per avere più profondità di campo, così sono nitide le cose vicine e pure quelle lontane: facile, con la luce buona. Basta ricordarsi che il diaframma è più chiuso quando il numero che lo indica è più grande: un 16, un 19. Numero di diaframma piccolo, diciamo un 5.6, vuol dire diaframma largo: viene a fuoco solo il soggetto principale, il resto no. Con poca luce però non si può chiudere troppo, sennò il tempo dello scatto si allunga e la foto viene mossa, e allora serve il treppiede. Ma nei musei, per dire, non te lo fanno usare.
Qui però la luce basta, e poi un museo non c'è proprio. Quindi.
Ancora non significa un granché, però belle le nuvolette basse biancorosa. L'orizzonte non è proprio dritto: c'è un po' di crestoni e qualche sagoma scura, che non si distingue bene.
Aspetta. Laggiù c'è qualche uomo. Due persone, un po' sulla destra. Sembrano in posa per la fotografia, però lontanissime. Strano tanto. Quella a sinistra potrebbe essere una donna, forse. Vabbè che è a fuoco, l'ho detto, ma sono troppo piccoli lo stesso. E se mi avvicino all'immagine mica vedo meglio, anzi: mi si sgrana tutta sui buchetti dell'intonaco a buccia d'arancia, stile Anni '80. L'ha voluto papà, il muro così. Allora compra un ricco telo per le diapositive, dico io, che stai sempre a viaggiare, fai un sacco di rullini, e così te le rivedi e ce le rivediamo come Cristo comanda. Senza mettere e togliere i quadri dal muro, e leva e metti l'enciclopedia sotto il proiettore e sposta il tavolo e chiudi la finestra e 'sto muro non va bene. Che ti passa la voglia. Glielo dico, e lui risponde sì. Ma saranno anni.
Insomma ci stanno due persone, lì. In posa, e non si capisce il perché. Boh. Passo all'ultima.
tudz(v-vt-v)tltc
Cavolo! E' PAPA'.
Nettamente.
E' quello a destra. Col berretto da rapper, come lo portava prima. Capelli lunghi, barbaccia, cento denti, casacca smanicata a pelle, vello in vista, jeans da scavalco, scarpe da basket.
E' proprio lui. Selvatico.
E m'ero sbagliato: vicino non c'è una donna. C'è tipo un beduino, con un barracano caffè fino sopra la nuca. Sul viso ha la pelle cotta, il beduino, cogli occhi grandi e buoni e qualche buco tra i denti come l'arabo delle carte da Mercante in Fiera, quelle della Modiano.
Papà gli passa un braccio dietro le spalle, come tra due amici. Sorridono verso l'obiettivo. E che obiettivo: un signor tele! Sì perché la foto l'hanno fatta dallo stesso punto esatto di quella di prima. E si capisce dal fatto che tutta a sinistra in questa 'dia' qui c'è ancora una striscia verticale giallogrigia in primissimo piano, completamente sfocata. Che può essere solo un particolare del solito remo ficcato per terra: giusto così, per inquadrarlo sempre. Quindi, se prima le due figurine si vedevano appena sull'orizzonte e qui invece ci sono due uomini alti più di metà dell'altezza di tutta l'immagine, allora quest'altra foto l'hanno fatta con un bel cannoncino di teleobiettivo: forse proprio il 600 di papà. Che tiene in mano, mi pare, quel congegno che comanda tutto, anche l'autoscatto a distanza, puro Hong Kong Anni 2000 che verranno. Se l'è fatte da solo, le foto.
Be', allora era matto proprio: per questi due scatti si sarà fatto tre e tre sei volte dal remo all'orizzonte e viceversa, su quella specie di steppa rinsecchita, col sole che non scherza pure se è basso!
Capito? Porta l'arabo giù in fondo, torna indietro, sistema il treppiedi, inquadra, vai laggiù pure te, telecomando, clic, ritorna indietro, cambia l'obiettivo, inquadra un'altra volta, rivai giù in fondo, clic ancora, acchiappa l'arabo, pure lui un bel matto, ritorna ancora al remo, smonta tutto e via. Col fuoristrada che s'intravede qui a destra nell'ultima diapositiva, un cofano rosso lucente. E tutto perché? Solo per stupire un minuto chi se le fosse guardate tutte e quattro in sequenza. Come me ora.
Non doveva passarci proprio nessun altro, da quelle parti. Sennò non lasci tutta l'attrezzatura così e ti allontani di una chilometrata un paio di volte, con quello che costa. Un deserto, tipo, secco e vuoto.
Guarda! L'astuccio come quello di mamma... E' proprio uguale, è appeso al collo dell'amico beduino. Quello dove mamma tiene le sue foglie di tè, che quella fricchettona di zia Iftime ci legge il futuro. Papà gliel'avrà portato da questo viaggio. Non me lo ricordavo... Invece mi ricordo la classica discussione tra zia e mamma sulla faccenda della lettura di 'ste foglie, tipo questa:
“Va bene, Iftime, la scienza non la centra, la verità. Ci gira solo intorno, la sbircia...”
“E io che dico? Che è la poesia che arriva alla verità! E infatti io leggo la verità del non-ancora nella poesia del tè che danza...”
“Eh no, scusa. Tu non leggi la verità nel tè. Magari! Quello che fai tu è: guardare le foglioline sul fondo della ciotola, cercare sul manualetto la pagina con la figura che spiega quello che dice il tè quando si mette così e così, e fare un bell'oroscopo! E' un po' diverso dalla poesia...
“E' uguale, ti dico! Lo ammetti pure tu che la scienza non arriva dappertutto...!”
“E' diverso. Senti: da una parte la poesia cerca la verità, d'accordo, e dall'altra la scienza si accontenta diciamo dell'utile. Ognuna però col metodo suo, sennò non vale! La scienza si dà un obiettivo, fa un progetto, cerca le prove, butta giù una teoria, e se funziona dovrebbe essere utile ad aiutarci a campare meglio, concretamente. Sarà un po' troppo prosaico, terra terra se vuoi, ma meglio che niente. La poesia, invece, e l'arte tutta, e mettici pure la mistica, la religione, mettici pure l'erba già che ci siamo, o quello che ti pare, hanno l'ambizione di volare più in alto, giusto? Entrano... dovrebbero entrare in contatto con la bellezza, l'armonia, il sentimento, e direttamente con la verità da quest'altra strada. Però, dico io, dovrebbero riuscirci, e noi scegliendo questa strada anziché la scienza, dovremmo riuscirci, senza tante ricette e senza tante formule! Dovremmo volare e basta, con la poesia, a occhi chiusi e in silenzio, se ne siamo capaci... e non copiare dai manuali del perfetto spiritualista, di ogni epoca, provenienza e campo specifico. Sennò mi tengo le equazioni, i grafici, gli esperimenti di laboratorio e le enciclopedie! Non ti pare, sorellina?
“...Guarda che chi li scrive, i manuali della spiritualità, come li chiami tu, che poi sono i Maestri, di ogni tempo e disciplina, tutte queste cose le sanno. Loro i segreti li hanno studiati, a occhi chiusi e in silenzio. Però per farceli capire, per farli entrare dentro di noi...”
“Sì sì, però il segreto vero è un altro: che niente serve per quello che non ti può dare. Le dritte per campare, quelle, te le dà la medicina, la legge, l'informatica o che ne so. Beati loro invece i poeti e i maestri lavorano per l'estasi direttamente! Ma noialtri, macché estasi: noi andiamo là sotto alle loro sillabe a cercare i post-it del conto della spesa! Allora, scusa, ma se è solo per fare due più due e sentirmi meglio, l'arte e la mistica io le trovo un po' sprecate. Onestamente, scienza e coscienza, se non so volare, bastano e avanzano.”
“Bah. Sarai pure mia sorella ma sei così materiale, scettica...”
Be', scettica mia madre non direi proprio. Con tutte le volte che ha continuato a credere che papà tornasse, sempre. L'amore poi non è mai materiale, no? E infatti lui tornava.
Casomai è zia, che è sempre così diffidente, pigra. Vabbè.
Insomma, capito che roba! Le quattro diapositive misteriose... Ma mica lo so che ci stanno a fare da sole in fondo a questo carrellino. In più, stranezza estrema, sopra, al posto dell'etichetta autoadesiva, c'è questo foglietto con una specie di filastrocca scritta al computer:
Grazie alle orecchie per tutta la musica, per la voce del vento, del mare, del bosco e della gente
Grazie agli occhi per tutta la pittura, per il cielo di giorno e di notte, per il pensiero scritto, per gli spazi umani e non umani
Grazie alla memoria per ritenere di tutto e delle storie il più possibile
Grazie alla fantasia per ricombinare tutto senza posa, in veglia o in sogno
Grazie alla sorte per avere io fantasia e memoria e occhi e orecchie
Grazie alla lingua per dire questi grazie
Grazie all'amore che muove la mia lingua, le mie braccia e gambe
Grazie all'amore che le ricompensa in baci, e abbracci e passi insieme
Grazie all'amore che è il coraggio di sapere, di capire e di fare
Grazie alla vita
Mah, mah...
- ...Eh, mamma? Tu lo sai perché stanno qui, queste foto? E la dedica?
- Mi serve la prolunga, Telemaco. Scusa, hai finito? Su, che attacco il telaio...
- Sì, ecco... tieni... Mi dici delle diapositive allora?
- Be'... fu nella fase acuta dell'esaurimento. Ci si era svegliato, papà, con quest'idea che doveva andarsene in giro con un remo in spalla, finché non avesse trovato uno che non conosceva né i remi, né le barche, né il mare...
- Ma perché?
- Se l'era sognato. Disse che aveva sognato un vecchio cieco, che si chiamava Tiresia e teneva in grembo un gatto bianco che lui chiamava Il Gricio. E Tiresia ordinava a tuo padre di fare così, e di piantare il suo remo lì nella terra dove fosse arrivato alla fine. Solo in quel modo, diceva, gli poteva passare per sempre la smania di andare e venire, per lavoro o per gioco, di sparire per i fatti suoi...
- Già.
- E tuo padre lo conosci, non lo tieni mica. Partì col remo, e girò finché non trovò quell'altro bel tipo di fenicio. E torna con quattro diapositive, con quell'astuccio, una specie di poesia in testa... e un sorrisetto che metteva paura.
- E più esaurito di prima.
- Sì.
- Infatti io, che non sapevo niente, torno da una vacanza in barca con gli amici, e trovo lui in clinica e te che tutti i giorni fai avanti e indietro!
- Ma ormai il peggio era passato! C'era entrato col ghigno più ansioso di sempre e le frasi più sconclusionate. Gli hanno fatto subito cento esami e mille colloqui, e poi gli hanno prescritto una bella terapia da fare prima lì, e poi a casa. E piano piano, con noi pure che lo aiutiamo...
- Uhm...
- Dài, sta tornando nuovo! Non lo vedi? Padre, marito, regista: un altro Odisseo! E senza tutte quelle manie, senza troppo pepe sotto al culo!
- A me non dispiaceva neanche prima...
- Tu sposati un'anima in pena così, e poi mi dici!... Senti? Questo è lui che arriva...
- Fischietta...
- Sì... Scusa, gli vado incontro... mi sento sempre un po' così quando rientra. Capirai!...
- Tranquilla ma', vai...
E tu va', Penelope paziente. Vai verso Odisseo tuo sposo, incontro al suo eterno ritorno.
Tiresia indovina il futuro celato agli Dei dell'aria, e l'eroe del lungo viaggio dà terra e carne al suo responso. Ancora. E ancora. E ancora.
Vieni, dolce Penelope. Il futuro è libero.
Il futuro si mette in posa.
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Una piccola odissea
[dal Daily Mirror, ottobre 1965:
Storie di scienza e di città - rubrica settimanale]
Lei è: una londinese di trentacinque anni, di famiglia borghese, sposata, madre di Lucy, una bambina di quattro, insegna storia dell’arte in una facoltà prestigiosa. Lei è Harriet.
Lui è: suo marito da sette anni, e ne ha trentotto, di Manchester ma da tempo a Londra, avvocato con buona clientela soprattutto in campo medico, è uno sportivo. Lui è Benjamin.
Il problema: che di figli ne volevano almeno un altro. E non era facile.
Ecco com’è andata.
Harriet e Benjamin si conoscono ai primi del ’57, a una festa in casa di un comune amico il quale ha concordato con mamma e papà un invito da girare a compagni e compagne di studio e conoscenti più o meno selezionati, per un party senza eccessi in loro assenza. Giunti gli ospiti ad Hampstead, alla spicciolata, sul piatto si alternano i Platters, Jerry Lee Lewis e Perez Prado, la domestica serve con giudizio punch e martini, si ride delle gaffe di Filippo a corte, si discute di Medio Oriente e ci si esalta sul nuovo cinema d’autore.
Tra i ragazzi c’è anche qualcuno che l’università l’ha finita da un po’. Come Benjamin, trentenne all’epoca, che pensa a farsi un futuro nel grande studio legale e la carriera ha finora distratto dal pensiero di una famiglia tutta sua. O come Harriet, appena chiamata da ricercatrice alla cattedra di classicismo e neoclassicismo, e che gli allievi del suo corso corteggiano con garbo, riuscendo a farla quasi arrossire, la professoressa di ventisette anni.
A festa avanzata, in una pausa del giradischi, Benjamin defilato dilettante sull’immancabile piano a mezzacoda accenna un ritornello inizio secolo, filastrocca da innamorati in bicicletta. E’ allora che i suoi occhi indugiano davvero su quelli di Harriet, chiari e sorridenti, che l’ascolta e canticchia.
Il vantaggio di essere già grandi, in mezzo a tutti quei rampolli: loro due se ne andranno di lì a poco, soletti, senza dare troppo nell’occhio. Mentre salgono sulla macchina di lui il tema è ancora la musica: “Il tuo classico preferito ?” “Strauss...” “Anche il mio: Johann Strauss!” “Veramente pensavo a Richard...” “Ah, va bene... non fa niente!”, ripara lei con dolcezza.
E sul serio non fa niente: eccoli infatti dopo neanche un anno felicemente sposati, dietro chissà che compromesso sulla marcia nuziale... tra valzer e Zarathustra!
La casa, nido d’amore, è bella e ben piazzata a Green Park, l’intesa della coppia la pervade e i suoi effetti tracimano fuori, nelle rispettive professioni che crescono in soddisfazione e in reddito. Hanno diversi buoni amici, Harriet e Benjamin, e adesso sono loro gli anfitrioni di qualche serata riuscita. Ma anche da soli se la godono, improvvisando a piacere oppure scambiandosi gli hobby del tempo libero: Harriet educa il marito al disegno dal vero e Ben la moglie alla corsa campestre, in più ogni tanto si sfidano agli scacchi. E nell’intimità... Be’: un ménage invidiabile! Forse frutto della maturità di entrambi, che certo non si sono messi insieme come due ragazzini. Così trascorrono mesi di gioia, per loro, e stagioni.
Ma se l’età conta tra i profitti, pure in qualche misura può pesare sui passivi. Fosse anche soltanto per questo: il primo figlio, desiderato a corona di quell’equilibrio, non arriva.
All’inizio non se ne preoccupano: verrà, si dicevano, verrà a ereditare questa vita serena. Ma dopo un anno, due, quasi tre dal matrimonio, e le famiglie di entrambi che chiedono, con discrezione, e gli amici che non domandano ma si potrebbe sentirli sussurrare che qualcosa non va…Harriet e Benjamin un controllo se lo concedono: tra i clienti di lui c’è anche uno specialista in disciplina, nuova, senza tanta tradizione. E il responso è che la loro probabilità riproduttiva risulta un quarto della media, con tendenza a diminuire.
Problemi di compatibilità, di quantità delle cellule interessate, la scienza non può molto, ancora: provate, se volete – gli consigliano – ma senza ansie controproducenti.
Per Ben, soprattutto, è un brutto colpo. Da Manchester a Londra per mettere radici, sì, ma anche per generare frutti vivi. Da offrire alla Terra e al Sole. E poi: la sua buona salute, la posizione sociale, il suo fisico allenato altrettanto che la mente brillante con cui di solito supera le difficoltà. Ebbene, tutto non basta a vincere? Pare di no, e c’è il rischio di un salto nella depressione.
Ma è lei a sostenere il suo uomo, adesso. Rossore o meno sulle guance, la tempra di Harriet è solida. Non per niente un collega medievalista la chiama affettuosamente col nomignolo al maschile, Hal, che scende giusto da epoche meno soffici di questa. Seduce suo marito, ora spesso, con passione rinnovata a confermarne l’attraente virilità, e lo solleva dal pensiero della finalizzazione: il calcolo dei giorni fertili, la verifica dei test mensili, il filtro alla curiosità altrui, perfino un’impercettibile variazione del regime alimentare, sarà tutto a cura della donna e della sua innamorata abilità pianificatrice.
Finché una sera d’estate, 1960, Benjamin le domanda: “Andiamo al cinema? Grossa produzione, storico e d’autore: Spartacus, ne parlano bene.” E Harriet risponde: “Ti dispiace se invece restiamo in casa? Cenetta e documentario sul Quarto Canale, e comunque…” ma qui s’irradia un sorriso, ”forse è meglio se d’ora in avanti mi riguardo un pochino.” Ben la fissa, la interroga muto, lei alza ancora gli angoli della bocca, gli tende le braccia e… E qui servirebbe il poeta che io non sono: perciò la gioia dei nostri tentiamo di sentirla così, insieme, ad occhi chiusi!
Li riapriamo dopo un minuto, giusto per sbirciare: ecco Harriet nel comodo divano del salotto, seduta con le gambe distese al poggiapiedi, davanti al televisore, e Ben rannicchiato al suo fianco, felice, con la testa ricciuta poggiata con delicatezza sulla spalla destra di lei, e una mano intrecciata alle sue, affusolate, sul ventre morbido e prezioso. Le immagini nello schermo scorrono a volume basso: una rincorsa di Sputnik ed Explorer, nel cielo nero e fitto di diamanti. Harriet respira, si lascia andare alla fantasia… Ed è come un’astronave, quieta, con piccolissimo pilota a bordo… O come un pianeta rotondo e ospitale, benedetto di nuova vita.
E quella vita è Lucy! Che atterrerà fra loro nell’aprile dell’anno dopo. Già: insieme a Gagarin.
A proposito di sovietici: ad Harriet durante quella gravidanza tocca un momento di malinconia e prende, come succede, le forme del sogno. C’è una donna russa, tetra, forse a lutto, in un ambiente bianco e asettico da ospedale, e questa donna ha il suo stesso volto, ma più maturo. Parla una lingua che Harriet non può capire, e… Fine del sogno. E sarà il clima pesante della guerra fredda che porta dritto al muro di Berlino o la tensione della gestante che deve pur sciogliersi in qualche modo, ma per fortuna è solo un episodio. Entro limpidi orizzonti di gioia.
Orizzonti che Lucy appena nata occupa quasi per intero. La piccola è il centro delle attenzioni dei suoi genitori, dei nonni e di altri parenti e amici, e la vita familiare, dalla quotidianità al tempo libero alle scelte più impegnative o a lungo termine, ne è naturalmente condizionata.
Così questa nuova gioia più matura e fragrante si dispiega per autunni e primavere, e ancora scandisce ricorrenze private e pubbliche: il primo dentino e le corse carponi, l’esplosione dei Beatles, la fine di Kennedy, i mille perché della bambina, la rivoluzione dei calcolatori elettronici, il primo tuffo in piscina tra i cuginetti, il governo Wilson e le minigonne ostentate da tante lolite, finché…
…Fino a quando, compiuti da poco i tre anni, Lucy inaspettatamente s’incupisce. E per il più classico dei motivi, che giocattoli, torte, cavalli a dondolo e passeggiate nel parco non riusciranno a scalzare affatto.
E’ Ben per primo che assiste alla scena della piccola che getta da parte lo scimpanzé di pelouche, una volta prediletto con tanto di nome proprio – Luna – e dice chiaramente, in tutta la serietà del suo precoce carattere: “Voglio un fratellino!”
Non credo ora sia difficile, per voi, intuire il timbro delle premonizioni che attraversano in quell’istante la mente di Benjamin, e di Harriet poco dopo, quando entrambi avranno capito che da lì non si esce per nulla semplicemente: più o meno, ecco, come il rumore di uno specchio in frantumi.
Ci hanno messo due anni tondi ad arrivare alla prima gravidanza, ed erano più giovani di adesso. Dire che i loro rispettivi apparati genetici non siano nel frattempo migliorati in efficacia è buon senso spicciolo, e comunque è purtroppo confermato dall’esame ripetuto per ultimo scrupolo.
Eppure Lucy è lì, a segnare con la forza del suo adorabile broncio quello che in fondo anche loro già desideravano. Per cui è deciso: nonostante le obiettive difficoltà un fratello alla piccola si proverà in qualche modo a darlo! E dovrà trovarsi la maniera di non aspettare tanto, e magari invano.
Impresa disperata, a meno di battere la strada piena di incognite dell’adozione. Ma, di nuovo, è dal campo delle conoscenze di Ben che scocca una probabilità remota, grazie alla quale è possibile arrivare al laboratorio-pilota di tutto il mondo libero nella disciplina della fecondazione artificiale. Si tratta di una tecnica avanzatissima, pressoché sperimentale, che però ha già permesso al team dei clinici dell’Oldham General prelevare un uovo di donna e un seme di uomo, sani, e – badate bene – fonderli insieme fuori dalla sede naturale, creando così la prima cellula di un nuovo individuo!
Non è fantascienza, ve lo assicuro...
E appunto risolverebbe, la tecnica, tutti quei casi di sterilità in cui uova e semi, fisiologicamente a posto, tuttavia sanno incontrarsi naturalmente.
Risolverebbe, dicevo però: non risolve già ora. Poiché un problema rimane, e grosso: quella prima cellula frutto dell’unione esterna – si dice fertilizzata in vitro – poi, reimpiantata nel ventre femminile, non riesce ancora a svilupparsi in un feto vitale.
Ma la speranza...
Harriet e Benjamin domandano quindi i costi complessivi per rischiare la sperimentazione, e valutano che ne valga la pena. E senz’altro accettano anche di sottoporsi alla terapia chimica preliminare, che stimolerà i centri ormonali di entrambi e per la quale i tentativi non potranno essere comunque più di tre. Bombardamento, prelievo, fusione, reimpianto e… dita incrociate: una volta. E se fallisce, un’altra daccapo dopo due mesi. E se manca ancora, la terza e ultima. Per un solo secondogenito. Altrimenti ragioneranno seriamente sull’ipotesi adozione.
Comunque, si va ad incominciare. In giugno, 1964.
Però la fortuna che occorre, e in dose astronomica, per un esito come quello agognato, gira le spalle alla nostra coppia: due prove vanno a buca, e con esse un bel periodo di commovente ottimismo. Ben, che nelle sue sgambate domenicali lungo il fiume si sorprendeva già a fantasticare di un marmocchio di nome David cui mostrare i campioni dello sport, e magari gli arcani legali, ormai è abbastanza a terra. E anche per Harriet adesso è difficile ripescare il suo forte alter-ego, Hal – ricordate? – nascosto in chissà quale pagina di storia, e tra l’altro è convinta che tutta questa chimica lascerà in ogni caso traccia nel suo corpo. Perfino il loro ménage, così intralciato da tabelle, consulti e medicinali, ne risente come mai prima, benché i due facciano il possibile per non inacidirsi, soprattutto a vantaggio di Lucy che però ricomincia a sbuffare come un trenino.
A metà ottobre siamo insomma all’appello definitivo, che tra stimolazione, tentativo vero e proprio ed esami di verifica, tuttavia non darà un verdetto fin quasi a Natale.
Marito e moglie, allora, saggiamente programmano per il Capodanno una vacanza-relax per tutta la famigliola, comunque vadano le cose, allo scopo di festeggiare a cuore spalancato se la lotteria sarà vinta. O di staccare da tutto per dieci giorni se invece, com’è probabile...
Dunque mi consentirete, spero, di arrivare direttamente sulla scena rivelatrice, con un taglio alla ultimo Hitchcock...
Ed è il primo gennaio da un’ora soltanto, il piroscafo incrocia tranquillo a sud di Suez. Ben e Harriet hanno salutato altri ospiti di pregio e il loquace comandante dai capelli biondocenere, che interpreta il rito conviviale come una conferenza stampa, dalla sala della cena e dei valzer sono rientrati nella lussuosa cabina multipla e Lucy raggiunge finalmente il lettino desiderato con qualche sbadiglio. Harriet la bacia con dolcezza mentre Ben si avvicina al tavolo per appuntare gli estremi di un possibile cliente. E nel carezzevole rollio della nave, e dello champagne, sente dietro la nuca le labbra della bella moglie che gli dice piano: “Non è andata, va bene, e ci soffri tu come me. Però pensiamoci solo al ritorno a casa, e decideremo ogni cosa. Vuoi? E’ una notte così mite...”
L’uomo si volta per guardare la donna in viso, dopo tanto tempo la annusa, quasi come un primitivo, la penombra li avvolge... e la penna viene lasciata lì, vicino ai fogli. A galleggiare fino a giorno fatto.
Toccherà a Benjamin raccontare poi di un suo sogno, giunto prima del risveglio e figlio forse di una visita recente al nostro Museo di Storia Naturale, dove lui e Lucy attraversavano le ère geologiche accanto ai paurosi australopitechi e ai loro primi utensili da caccia. In quella fantasia dell’aurora a un certo punto Lucy non era più una bambina, indicava sulle didattiche demografiche esposte la data del 2001, quando sulla Terra saremo il doppio esatto di adesso, e dimostrava infatti più o meno quarant’anni. E Ben, al contrario, era regredito a preominide scimmiesco in stato di evidente eccitazione, e fine anche di questo sogno.
Però non fu un sogno quando qualche settimana dopo Benjamin aprì la porta d’ingresso ad Harriet che rincasava insolitamente tardi, e con tra le mani dei fogli dal netto aspetto di analisi cliniche gli gettava le braccia al collo gridando: “Sono incinta!” No, altro che fantasia: era vero.
“Tracce me ne hanno lasciate, quegli ormoni, hai visto? Sono comunque un po’ più fertile! Lo siamo, tutti e due!” Questo Harriet racconta a Ben, ritrovata la minima calma, di quanto le hanno appena spiegato al laboratorio dove ha fatto il controllo dopo l’inaspettato salto del ciclo. “Quindi”, replica lui, amandola, “è stato a Capodanno, in nave... Alla vecchia maniera!... E prima non mi hai detto niente?...” “No, non volevo ferirti ancora. Adesso è certo! Nascerà a settembre!”
Che donna: un robot, con l’anima grande così.
Subito dopo Benjamin, tocca a Lucy ricevere dalla mamma la grande notizia, e in casa è festa grande fatta di coccole e baci, e programmi gioiosi per il prossimo futuro. Figuratevi poi quanta sorpresa, quanto sollievo e giubilo al responso, di lì a qualche mese, che i cuccioli in arrivo sono due: gemelli “...probabilmente monovulari,” aveva detto il dottor Floyd del reparto ostetrico, “come può capitare in caso di stimolazione chimica.”
In pratica era successo questo. Il triplo tentativo di reimpianto nel corpo di Harriet di cellule-embrione fertilizzate in vitro non era riuscito – il che conferma che la rivoluzionaria disciplina deve ancora trovare una propria strada – e quelle cellule erano state ogni volta espulse senza che dessero vita... alla vita: come ancora ibernate. E però i semi di Benjamin e le uova di Harriet avevano benificiato di quella sorta di elisir di giovinezza imposto loro dal protocollo sperimentale, così da ritrovarsi naturalmente alla prima occasione: e staccando non uno, ma due biglietti per il fantastico viaggio verso la nascita!
Finisce perfettamente in gloria, quindi, questa nostra vicenda?
Insomma, ancora un attimo…
Esattamente come per una trasvolata, il decollo e l’atterraggio si sono anche qui rivelati i momenti più critici dell’intera storia. Sulle false partenze, i rimbalzi, le difficoltà a liberarsi dal suolo e prender la giusta corrente non c’è altro da aggiungere. Ma all’arrivo...
...Eccoci ancora in ospedale, ottavo mese avanzato, perché Harriet non si sente troppo bene e il medico le ha prescritto un ricovero fino al parto, cui può mancare non più di qualche giorno. “Il fatto è che,” spiega ancora il ginecologo, “se c’è stata un’influenza decisiva per la gravidanza, doppia, comunque gli ormoni assunti hanno scombussolato i delicati sistemi gestazionali in un modo che non possiamo sapere con sicurezza. Dobbiamo infatti pensare a ciò che succede lì dentro, sempre, come a una continua ricerca di equilibrio tra due poli opposti: ciò che dovrà venire alla luce per iniziare a vivere, in questo caso due bimbi, e ciò che invece esaurirà il proprio scopo e uscirà solo per perdersi, placenta, amnios e tutto quel che nutre la crescita del feto. E’ la regola: l’instabilità intrinseca, che per fortuna pende quasi sempre a favore del nascituro. Ma ora, nel caso in questione? Non c’è che da aspettare, ma esser pronti. E sperare.”
Harriet è pronta, e spera. Ben aspetta, lì con lei, di affrontare anche questa prova. La donna è sorvegliata di continuo con tutti i mezzi della tecnologia medica, ma quel che conta è la mano forte del suo uomo, e ancor più ciò che avverte dentro di sé. E non è un idillio: somiglia piuttosto ad una resa dei conti.
La situazione accelera, rischia di precipitare. Lo staff di medici e infermieri deve spostare la donna nella sala più attrezzata, Benjamin potrà rivederla solo dopo, a cose comunque fatte. Harriet fa in tempo a chiedergli di sussurrarle la vecchia filastrocca – quella del primissimo incontro, Daisy sul tandem dell’amore – così che lei possa ripetersela soffiando sul tamburo delle contrazioni finché...
...Finché le acque si rompono, i valori sobbalzano, mani esperte intervengono e un gemello, il primo, purtroppo non ce la fa: esce già inerte. Harriet lo sa e tiene duro, si aiuta come può e il dottore e l’ostetrica che fanno il possibile, ma il secondo non ne ha bisogno, il secondo viaggia da solo come una sentinella, seguendo chissà che segnale vecchio milioni di anni, il segnale monoliticamente inconfondibile che apre una vita umana.
Eccolo, il bambino.
Ora finalmente tra le braccia di sua madre. E tra un minuto avvolto da un altro abbraccio ancora, quello di suo padre.
Eccoli là: facciamoli riposare, tutti e tre. Lo strameritano.
Almeno fino a quando, pochi giorni fa, non avranno il desiderio di condividere con me il racconto di questo tratto della loro esistenza, a partire da una festa della gioventù londinese dei primi del ’57...
“E non ci crederete,” conclude il proprio racconto Benjamin “ma quando ho guardato David negli occhi, seri seri, nell’istante in cui li apriva sembrava avesse là dentro già tutto il mondo: un caleidoscopio! Ho provato una sensazione stranissima: un misto inestricabile di gioia immensa e paura sottile, tagliente. Sarà forse un’eredità ancestrale, ho pensato, ma ecco lì un uomo nuovo di zecca, un altro maschietto, come me, in cui potrò spingere il mio orizzonte un po’ più in là, e goderne la crescita ! Già, mentre io però… declino... Insomma, una cosa così.”
Ma l’ultima è ancora di Harriet: “Ben è tuttora disorientato. Si capisce: ne abbiamo passate, di tribolazioni! La verità pura e semplice è che David finalmente è qui con noi, come una freccia d’amore che ha toccato i nostri cuori. Sta con Benjamin, con Lucy e con me… E tutto questo ci rende tanto, tanto felici... Sì, l’altro non ce l’ha fatta... Io sentivo distintamente, a un livello misterioso, che ci stava lasciando... come cadendo nell’ombra... Ero disperata, in quegli istanti, ma ho capito subito che non potevo permettermi di crollare: dovevo far sorgere comunque un’esistenza! A quella creaturina sfortunata penso ora come... a una stella buona, che da qualche parte sorveglia David e noi! Ecco... Sembra magia, no? Ma è la natura, tutto qui.”
Tutto qui, Harriet e Ben, ora davvero. E grazie per averci raccontato la vostra avventura!
O piuttosto… la vostra odissea.
Quentin Burberry
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Nessuno sa dove
Pareva perduta, ormai. Risucchiata nel vortice immenso del passaggio dell’ultimo automezzo.
(Dopo quello, il traffico – già scarso, peraltro – si devierebbe altrove fino al termine della gara: proprio l’ultimo, quindi, che sfortuna.)
E scompostamente rotolava fra le correnti artificiali di un’aria surriscaldata di anidridi. Ora più vicina al manto di nuovo asfalto, ora al paraurti lucido della Millecento del Comitato, ora quasi del tutto annichilita nel buio dei fori roteanti di una borchia laccata in bianco.
Sembrava poco più che un vivace disegnino ripiegato, sballottato a caso dal vento e lì lì per finire la sua corsa sotto il ciglio del marciapiede, nel tombino. Perduta.
E invece riacquistò il controllo, in un attimo decisivo: uno stallo d’inversione termica, forse, o per l’inutile debraiata dell’autista.
Un solo istante. Ma poi un altro, e poi un altro, e un altro. Con quattro splendidi colpi d’ala uscì dall’uragano, frenò l’inerzia del trascinamento, si ribaltò in un assetto più gestibile e, scrollandosi, finalmente mosse in salvo.
Circumnavigò, la piccola machaon, il filare di pini che di quel viale vasto e inondato dal sole pomeridiano affiancava la corsia diretta verso il centro di Roma, e scivolando e piroettando sulle dita di una brezza tiepida fra una coppia di panchine e la sommità di un’edicola ancora sigillata, dal calice cromato di un lampione si spinse fin sul balcone d’angolo che squadrava il terzo piano di un palazzo di sei, recentissimo e tenue d’intonaco verde e travertino.
Là si fermò. A riposare i colori delle ali appuntite tra i primi fiori di una malva precoce, proprio davanti alla portafinestra di un soggiorno. Spalancata, vociante.
- E no, eh ?! E mica può essere che stai sempre incollato davanti a ‘sta televisione ! Una aspetta il sabato apposta per uscire… Va bene tutto: le corse, le medaglie… Però qua non si fa altro da due settimane ! …Ma hai visto fuori che giornata ? Che aspettiamo, che va via il sole ? Eh, a Bru’: me senti ?
- Ma non dicevi così l’altro giorno, però… Hai visto pure te quant’era bello ! “Neanche pare vero”, hai detto… Stavamo tutti fuori dai balconi a strillare “BERRUTI !” …E poi, Rosse’: la storia della Rudolph, della gazzella… Te ce sei commossa, non di’ de no !
- Ma guarda che sei proprio qualche cosa ! A me mi fa piacere stare con te, che sei contento che vince un italiano… e festeggiamo e stappiamo una bottiglia… Ma a te non te basta mai ! Senti, ho capito: te resta qua, io salgo su da Emma e esco co’ lei !
- Emma… bona quell’altra ! A forza de strilli e de capricci se l’è fatto scappare il giornalista, e te credo ! Ma chi ce resiste co’ un’isterica così ?
- Zitto, ch’è tutto aperto e se sente – e nel dirlo, la donna arginò d’istinto la voce col palmo della mano – …Ma poi te che ne sai ? Giornalista quello !? Solo i pettegolezzi gl’interessano, a Rubini: uno così mejo perderlo che trovarlo !
Tra il lampadario a gocce e il piano d’onice del tavolino le parole rimbalzavano e si rincorrevano, finché il televisore non pretese l’attenzione della coppia.
- Dài Rosse’, che manca poco al via…
- E te pareva ! Ma tanto è l’ultima, no ? Quanto dura ‘sta corsa ?
- Un paio d’ore, quanto sei dorce ! Alle sette e mezza è finita… E pensa che passano proprio qua sotto, sulla Colombo ! …Guarda Rosse’, eccoli là: a piazza del Campidoglio, mo’ partono… Ecco, ora: PARTITI !
“Sono partiti !”
Il massiccio del Tabularium impediva alla fanciulla di vederlo direttamente, ma lo sparo dello starter poté sentirlo con chiarezza. E l’istante successivo, il caloroso brontolio dell’incitamento montava nei varchi stretti tra gli edifici capitolini fino a stemperarsi sulla distesa degli scavi.
Il sole le avvolgeva le spalle, e Leda – i gomiti poggiati sulla ringhiera del terrazzino nell’ora preferita – vagolava intorno al dubbio di rincasare e saziare così un certo languorino a suon di biscotti dentellati e latte fresco. Rientrò, ma prese solo un bel grappolo di primizia. E tornò subito ad affacciarsi dal suo bel punto di osservazione.
“Ecco che scendono per i Fori Imperiali… quanta gente !”
E oltre la sagoma di San Luca e Martina scorgeva, tra due ali tinte di folla e fazzoletti, un drappello di uomini in canottiera che si allungava verso il Colosseo – saltellante su e giù di piccole teste. Socchiuse gli occhi, e la fila di atleti le si mutò in un bruco che avanzava trasmettendo al corpo segmentato un’oscillazione perenne: dalla testa al fondo, e viceversa.
Li riaprì: i battistrada stavano già per eclissarsi dietro i ruderi di Massenzio, dove suo padre l’aveva accompagnata qualche giorno prima per mostrarle gli incontri di lotta libera sotto quelle volte gigantesche, e poi era partito per lavoro – come spesso accadeva. La ragazza restava allora con sua madre e un’altra signora che si occupava della casa, il prestigioso appartamento con la balconata rossa a tu per tu con le balze del Palatino.
E pure la mamma, non è che Leda la incontrasse sovente. Un po’ perché era davvero indaffarata insieme ad amici e soci, stilisti di grido, e poi perché anche lei era così brava e matura (“per i suoi dodici anni”, illustrava l’ultima pagella) che i suoi si erano presto risolti a concederle tutta l’autonomia che mostrava di meritare. E che essi, soprattutto, di meritarsi erano convinti.
Non dava molti pensieri, Leda. Ma non è che pensieri, non ne avesse. Giusto in quel momento stava covandone due, gemelli.
“Questi sono i Giochi della speranza di tutto il mondo, l’ha detto pure il Papa buono. E della volontà. Poco prima che nascessi in questa città c’era la guerra, e dopo ancora la fame… anche se io non l’ho mai patita. E la paura, a lungo, di non farcela. Adesso quei giovani laggiù che corrono, e altri che gli battono le mani in festa… Gente da tutti i Paesi, qui: in pace ! Da nazioni che sul mio atlante nemmeno ci stanno: il Kenya, il Ghana, l’Uganda… con le loro bandiere strane e bellissime. L’Africa, mi spiega papà, si sta muovendo… E con lei tutto quanto. E allora io voglio che il mondo cambi ancora in meglio, che danzi, che cominci a correre, a volare da farci girare la testa !”
“E anche la mia vita, adesso è pronta per danzare e per volare. Questa cosa che mi capita, che è successa questo mese per la prima volta, sento che viene al momento giusto. Mi porta la speranza, e un po’ d’ansia – è normale – …ma dà una spinta in più alla mia buona volontà. E poi magari arriverà l’amore, l’amore da grandi… Che poi non so neanche che vuol dire. Ma lo scoprirò, scoprirò tutto !”
Sussurrò quasi, all’acino d’oro scuro sul palmo della mano ferma.
Poi l’uva fu inghiottita. Così il lungo bruco, dalla curva ampia della via dei Trionfi.
I maratoneti volsero il passo leggero alle terme e alle antiche mura.
“Ma quant’è che abbiamo superato Caracalla ?
E questo stradone dopo gli archi, che non finisce mai.
La piantina col tracciato non ti serve più, quando sei qui. E nemmeno la tattica studiata con l’allenatore.
Sulla strada ci stai da solo. Coi tuoi piedi e i tuoi polmoni. E un cronometro in testa che non ti fa lo sconto di un secondo.
Un’altra salita. Lunga. Sposta in avanti il peso, e guarda altrove.
Il marocchino, il centottantacinque, mi sta davanti: ha un bel passo, ma dopo lo riprendo.
Quando saremo sul basolato, con le caviglie buone che mi ha regalato la mia terra.
E’ una città strana, questa. Siamo usciti dalla zona dei vecchi monumenti e subito dopo si è aperta, come una campagna. Ma sempre questa pista d’asfalto, su cui ora mettono la zampa questi palazzoni nuovi.
La gente in balcone e in finestra ci saluta. Bello.
E laggiù, quegli altri templi bianchi. Ma moderni. Tirati su per pura vanità.
Ero piccolo quando arrivarono da noi, quegli italiani, e pensavano di piegare un popolo.
Ma ora sto qui, corro sulle loro strade nel giorno in cui le guarda il mondo.
Prima dell’arrivo… pensa alla corsa, non all’arrivo ! …prima dell’arrivo passerò sotto la stele di Axum, e se vorrà il cielo sarò primo. Primo per la mia gente, per il mio amore.
Il pastore è diventato un soldato, il soldato diventa campione per l’Etiopia e per il suo imperatore !
Ecco, stiamo tornando. Il sole è basso, il vento alle spalle.
Chiedo ancora uno sforzo alle mie ossa, su questa via antica e stretta e ruvida.
C’è qualcosa della mia terra, qui. Quel che c’è dovunque ci sia stato tanto nascere e morire. E nessuno sa perché.
Quando stai bene puoi essere spazio, ma se stai male allora diventa tempo.
Il marocchino ce l’ho a un passo, e tutti gli altri dietro. Distanti.
Ora di nuovo la gente che ci incita, sul prato all’imbrunire qui accanto. E sotto l’acquedotto.
Una faccia dietro l’altra, nella luce delle fiaccole: è come se li riconoscessi.
Ecco, l’ho affiancato. Lui si appesantisce. Io sono lieve. Posso farcela. Parto ora.”
Il bambino non voleva darsi per vinto. La sua esigua cisterna era ormai agli sgoccioli ma troppi fili di quella ragnatela tuttavia resistevano, tesi tra uno stecco di ginestra e il gradone d’accesso al mausoleo di Cecilia Metella.
- Emanuele, bello de nonno, hai fatto ? Dài, che tra poco passano !
Come un provetto giardiniere, o un ingegnere idraulico, diresse allora il suo piccolo annaffiatoio naturale sui nodi dei tiranti maggiori intuendo che la loro rovina avrebbe ultimato l’abbattimento. E in effetti si sciolsero tutte, le trame di seta, e lentamente precipitarono le une sulle altre fondendo e quasi evaporando con ciò che restava dell’ipnotico disegno di madreperla. Fatto.
Adesso poteva richiudere i bottoncini dei suoi calzoni corti e tornare sulla strada già nel crepuscolo, sollevando bene i sandali per evitare l’ortica. L’argìope carnosa, scampata al diluvio, avrebbe con pazienza tessuto e costruito ancora, purché se n’andasse il gigantesco intruso.
- Eccomi, eccomi… ce n’avevo tanta !
Dalle Sette Chiese, dal Quarto Miglio, perfino dalle Capannelle si erano mossi in parecchi per partecipare a quella specie di veglia pagana. Avevano lasciato bici e lambrette sulle soglie dell’antica consolare, avevano aspettato duellando con gli acuti di Dallara e le chitarre dei Rock Boys che uscivano dalle radioline, e ora gustavano le evoluzioni di un tramonto cremisi con l’animo dolce sulle labbra e la sete di eroi ad incendiare gli occhi.
L’anziano, per mano al nipote, si sporse in avanti per scrutare in fondo al rettilineo.
- Nonno, che vuol dire maratona ?
- E’ un posto, un paese della Grecia. Devi sapere Emanue’, che tanti anni fa ci fu una battaglia importantissima proprio a Maratona: gli antichi Greci contro i Persiani, che però avevano un esercito quasi imbattibile…
- Come gli Americani ?
- Eh sì, però questi erano i cattivi. E insomma chi vinceva ‘sta battaglia vinceva la guerra, e per i Greci perdere voleva dire perdere tutto, diventare schiavi… Capirai ! Infatti a combattere ci andarono tutti gli uomini validi, proprio tutti. Ad Atene ci restarono solo i vecchietti come me, i bambini come te e le donne.
- Atene, la capitale della Grecia: questo lo so !
- Bravo ! Allora te dico solo che là in città se la facevano sotto dalla paura: se a Maratona vincevano i Persiani era proprio finita. Aspettavano tutti insieme in piazza, per farsi coraggio. Aspettavano, e quasi faceva buio…
Dallo sguardo mite del nonno Emanuele passò in rassegna i volti accesi intorno, alle faville dei tizzoni, all’arco più livido dell’orizzonte coi suoi primi scintillii di stelle. Dall’imbuto dell’Appia saliva intanto l’atteso clamore.
- A un certo punto, mentre chi pregava e chi piangeva, qualcuno dalle porte di Atene vide da lontano una figura: un giovane con l’armatura e tutto, che correva a perdifiato… Più s’avvicina e più capiscono chi è: è Filippide, uno dei mejo soldati !
La folla dei tifosi adesso si richiudeva sul selciato, perché tutti volevano assistere. E un attimo dopo si aprì di nuovo in un boato, per dare strada agli olimpionici. Emanuele guardava, e intanto sentiva.
- Lo aveva mandato il generale, a Filippide, che aveva già combattuto tanto… Lo mandava a strillare a tutta la città col cuore in gola “Ateniesi, abbiamo vinto !” …E quelli so’ saltati tutti, pazzi di gioia ! Te lo figuri, Emanue’ ? …Però Filippide adesso stava per terra senza più fiato, perché con tutte le ferite si era fatto di corsa quarantadue chilometri, da Maratona alla capitale: mo’ il cuore non gli batteva più.
E vide, il bambino taciturno, due uomini scuri e magri corrergli incontro. Il primo distanziava l’altro della lunghezza di un furgone, e aveva il numero undici sulla maglietta fradicia. Poi osservò il nonno, e gli parve stesse trattenendo due bei lucciconi.
- E’ in onore di quel ragazzo eroe, che ogni quattro anni si fa questa corsa coi giovani di tutto il mondo ! Eccoli, piccoletto mio… Salutalo, salutalo il tuo campione !
Abebe Bikila li superò in un attimo e tre secondi dopo transitò anche Abdesselem, entrambi risucchiati ormai dall’occhio di Roma.
Passando, l’etiope svelò i suoi piedi scalzi a Emanuele. Che ad occhi chiusi ci disegnò sopra due alucce variopinte.
Proprio accanto al palco del Comitato l’incalcolabile varietà delle minuzie volanti perforava il fascio latteo di una fotoelettrica militare, puntata sui rilievi dell’Arco di Costantino. Alla base della tribunetta e tutto intorno, fino alle rampe di Colle Oppio e di fronte fino al culmine della Via Sacra, il vasto spazio che circondava il cono del traguardo era altrettanto stipato di corpi, di braccia, di voci e suoni con timbri e accenti differenti, di cronometristi e stampa, autorità e uomini in divisa, vecchi campioni e nuovi atleti, turisti, venditori di bibite e panini, pataccari e creature dei rioni, cineprese e camionette, garzoni e fidanzate, chi aveva sentito la radio e quei pochi con la televisione, chi aveva incrociato la gara in moto, chi prima stava in finestra, qualche matto imprecante col governo, gatti coraggiosi, scrittrici, poeti, registi, attori e figuranti. Tutti convenuti là, ora, a celebrare il rito antichissimo della vittoria.
- Ma chi corre non ci pensa, a questo.
Montague lo disse al suo amico italiano, un gradino più in alto sul palco-ospiti e più giovane di lui di quasi vent’anni.
- E a che pensa ?
- C’è un tipo, uno scrittore arrabbiato come i nostri inverni, che ha pubblicato una cosa sull’animo del maratoneta. Sillitoe, si chiama. Potrei tradurvelo, se il tuo CONI ne acquista i diritti…
L’italiano guardò l’orologio: venti alle otto.
- Ci siamo, l’altoparlante li dà all’ultimo chilometro ! Lo conosci Bikila ?
- Il cognome credo sia Abebe… Sì, ho letto qualcosa. Non è giovanissimo, ma lo stesso può diventare un grande.
- All’altezza dei tuoi eterni rivali, i finlandesi ?
- Paragoni difficili, amico mio. Certo, a Parigi corsi le siepi contro un campione puro… Ma con l’immenso Paavo Nurmi non ho mai gareggiato: lui vinse semplicemente tutto il resto che c’era da vincere ! Paragoni difficili, e anche Parigi e Roma sono diverse. E pure avere ventitré anni, come allora, o cinquantanove.
Ridacchiò in inglese.
E il suo amico, Volfango, si persuase con osservanza euclidea che per confrontare cose molto differenti o distanti intanto occorrerebbe accostarle, il che valutava non fosse sempre semplice, e poi sovrapporle; e gli sembrava anche ingiusto per quella, tra le due cose a confronto, che nell’operazione di traslazione e ribaltamento finisse magari sotto.
Si distese anche lui in un sorriso arguto, e incontrò gli sguardi inconfondibili di nonni e nipoti, di coppie rappacificate, di una ragazza nutrice del decennio nuovo. E lontani, ormai vicinissimi, gli occhi neri di un africano disincarnato, nessuno sa come, e pronto per la Storia.
Bikila tagliò il traguardo in un delirio di evviva, tra rombi di applausi e lampi di luce.
Aubrey Montague finalmente scattò in piedi, col resto del pubblico, e tenendo il cronometro in alto sulla testa gridava scandendo:
- Due ore, quindici minuti, sedici secondi: nuovo primato mondiale ! E corre scalzo… Magnifico, magnifico !
E il trionfatore, sostenuto da mille mani, galleggiava a caso tra grida e microfoni rotolando in correnti ascensionali di euforia rovente. Un abbraccio di ammirazione accoglieva pure Rhadi Abdesselem, argento dopo un mezzo minuto, planato sull’arrivo in carne ed ossa.
A quell’ora le farfalle diurne, sazie del ristoro tra i fiori del quale sempre ci rallegriamo, avevano già scelto di celarsi alla vista umana e ai loro predatori. Nessuno sa dove.
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Una coppia meravigliosa
"Ciao, sì ho letto il tuo messaggio... sto quasi all’imbarco e scusa, ma… Insomma, ma senti un po’ qui: ci sono tre miliardi e mezzo di maschi e tre miliardi e mezzo di femmine, in questo momento, sulla faccia della Terra. Tutti appartenenti alla sottospecie homo sapiens sapiens, cioè alla specie homo sapiens, al genere uomo e alla famiglia degli ominidi.
Poi ci sono i bonobo, gli scimpanzè, i gorilla e gli oranghi, cioè tutti i pongidi; e i gibboni, che sono gli ilobatidi. E tutti questi, fino all’ultimo uomo sulla Terra, sono gli ominoidei.
Poi ci sono tutti i mandrilli, le amadriadi, i babbuini, i macachi, i cercocebi e gli altri cercopitecoidei, che tutti insieme sono le scimmie catarrine, uomo compreso. E gli uistiti, le cappuccine e tutte le altre platirrine; e tutti questi, fino all’uomo, sono gli antropoidei. Poi ci sono i galagoni, gli indri, i lemuri, le tupaie e tutte le proscimmie. E questi sono tutti i primati, uomo compreso.
Poi ci sono i capodogli, i delfini, i narvali e tutti gli odontoceti, le megattere, le balene e tutti i misticeti; e questi sono tutti i cetacei; ci sono gli scandenti; i trichechi, le foche e tutti i pinnipedi; i manati, i dugonghi e tutti i sirenidi; le cavie, i criceti, tutti i topi, i castori, gli scoiattoli e gli altri roditori; i conigli e tutti i lagomorfi; i pangolini e gli altri folidoti; i rinoceronti, i tapiri, le zebre, gli asini e tutti i cavalli, e questi sono i perissodattili; le talpe, i ricci di terra e tutti gli insettivori; gli iracoidi; i dermotteri; tutte le pecore, le gazzelle, i bisonti, le mucche, le giraffe, i cervi e tutti gli altri ruminanti, i cammelli, che sono i tilopodi, gli ippopotami e i maiali, che sono i suiformi, e questi sono tutti gli artiodattili; i macroscelidi; gli elefanti e tutti i proboscidati; i procioni, le lontre, gli orsi e tutti i cani, che sono i caniformi, e le iene, i leoni, i gatti e gli altri feliformi, e tutti questi sono i carnivori; i pipistrelli e gli altri chirotteri; i formichieri, i bradipi e tutti gli sdentati; gli oritteropi, cioè i tubulidentati; e tutti questi sono gli euteri, fino all’ultimo uomo.
Poi ci sono i canguri, gli opossum e gli altri marsupiali, che sono i metateri; e tutti questi, uomo compreso, sono i teri. Ci sono gli ornitorinchi e gli altri monotremi, che sono i prototeri; e questi, fino all’uomo, sono tutti i mammiferi.
Poi ci sono i passeri, le rondini, i gufi, i pappagalli, tutti i piccioni, le galline, le quaglie, le aquile, le oche, i cigni, le cicogne, gli albatri, i pinguini e tutti gli altri neorniti; e i nandù, gli struzzi e gli altri paleognati; e tutti questi sono gli uccelli. Ci sono i caimani, i coccodrilli e tutti i loricati; tutti i serpenti, le iguane, le lucertole e gli altri squamati; le tartarughe e tutti i cheloni; e questi sono tutti i rettili. Ci sono i rospi, le rane e gli altri anuri; le salamandre e tutti gli urodeli; e questi sono gli anfibi. Poi le sogliole, tutti i tonni, le orate, i cavallucci marini, i merluzzi, le trote, le carpe, le sardine, gli storioni e tutti gli altri teleostei; i celacanti, che sono i sarcopterigi; e tutti questi sono i pesci ossei. Poi ci sono le razze e tutti gli squali, che sono i condroitti. E tutti, fino all’uomo, sono gli gnatostomi.
Poi ci sono le lamprede e gli altri agnati; e questi, tutti fino a te e me, sono… siamo tutti i vertebrati.
Stanno per chiamare il mio volo...
...Poi ci sono gli anfiossi e gli altri cefalocordati; e ci sono i tunicati. E questi sono tutti i cordati, uomo compreso.
Poi ci sono gli emicordati; le oloturie, i ricci e le stelle di mare e tutti gli echinodermi; i chetognati; tutte le conchiglie, che sono i brachiopodi; i foronidei; i briozoi; gli onicofori; i tardigradi; i pentastomidi. Poi ci sono tutti i ragni e gli scorpioni, che sono gli aracnidi; i millepiedi e gli altri miriapodi; i lepidotteri come le farfalle, gli imenotteri come le api e le formiche, i ditteri come le mosche e le zanzare, i coleotteri come gli scarabei, tutte le pulci, i grilli, gli scarafaggi e tutti gli altri insetti; i granchi, i gamberi, le aragoste e gli altri crostacei; e tutti questi, tanti, sono gli artropodi. Poi ci sono gli echiuridi; i pogonofori; i sipunculidi; le sanguisughe, i lombrichi e tutti gli anellidi; poi i polpi e le seppie, che sono i cefalopodi; le ostriche, le vongole e gli altri bivalvi; tutte le lumache e gli altri gasteropodi; e tutti questi sono i molluschi; poi i loriciferi; gli acantocefali; i nematomorfi; le filarie e tutti i nematodi; i priapulidi; i chinorinchi; gli endoprocti; i gastrotrichi; i rotiferi; i nemertini; gli gnatostomulidi; le tenie e tutti i vermi piatti. E tutti questi, fino all’uomo, sono i bilateri.
Poi ci sono i coralli, le meduse e gli altri celenterati, che sono i radiati; e tutti, uomo compreso, sono gli eumetazoi.
Poi ci sono i mesozoi; i fagocitellozoi; le spugne e gli altri parazoi.
E questi, tutti quanti insieme, siamo gli animali.
Poi ci sono tutte le piante. Tutti i funghi. I parameci, le amebe e tutti gli altri protisti. E gli infiniti batteri.
E questi, fino all’ultimo uomo della Terra, sono tutti i viventi.
Okay?
E ora tu mi dici che non sai che fare? Che stasera che non ci sto ti annoierai?!?
Che ti senti… sola?!?!?
Ti chiamo da lì, su, dài fa' la brava... un bacio!"
Ok, capito. Mi rimetto a scrivere.
Nuovo post. Dicevamo...
...I bigotti in cielo non ci guardano mai! Dovessero per carità trovarci dio quello vero!
No, per loro meglio frugare tra disegnini e sindoni e stauette piangenti e chiodi arrugginiti, e scambiarsi teschi e reliquie rattrappite e santini, e indaffararsi tra pellegrinaggi e riti e olii e acque benedette e sacramenti e prescrizioni varie e leggende di miracoli e profeti, e tutto l'armamentario della superstizione - cantina buia dell'animo.
Dio, quello vero...
Perché ce ne stanno tanti, sapete? Tantissimi - a gradazioni di autenticità, dal falso come quella paccottigila al vero come l'essere stesso.
Ce n'è tanti, di dèi. E io qui, per comodità, ve li raggruppo in tre classi.
La prima, la più affollata, è la classe degli dèi inferiori. Quelli in cui credono i sempliciotti, quelli creduti dalla gente che - appunto - sta appresso a quella roba che dicevo all'inizio: miracoli e santi e reliquie e statue piangenti e muri parlanti.
Sono poveri dèi, si vergognano di essere creduti da gente così, sono umiliati dal fatto che la loro divinità sia merce di scambio per favori e pretese molto personali - tipo i numeri al lotto o una guarigione o una buona riuscita nel lavoro o addirittura (eh già) una vendetta trasversale tra individui o tra comunità o tra popoli interi.
Se ne vergognano davanti agli altri dèi, a quelli superiori a loro. Ma non è che possano pretendere più di così dalla natura, perché questi dèi minori (minori come quelli che credono in loro in quel modo tanto minore) non hanno alcun potere. Al più riescono a dare ai loro fedeli sempliciotti qualcosa cui pensare durante le rispettive tribolazioni quotidiane, dal cui tunnel non c'è praticamente nessuna possibilità che essi escano. Se continuano così, almeno.
E inoltre - ma non è un potere davvero loro, semmai un'astuzia di una data classe di umani - essi incidono nella storia dell'Umanità nella misura in cui chi crede in loro crede anche nella necessità che la società abbia una certa forma che essi gradirebbero (di solito, la forma in cui c'è chi sfrutta e chi è sfruttato) e nella correlata esigenza che esista una casta che provvede a garantire il perpetuarsi di quella forma (di solito, la casta sono i ricchi o quelli pagati dai ricchi per fare questo lavoretto) tramite la corretta e insindacabile (pena sanzioni gravi) interpretazione della chissà che volontà di quegli dèi.
C'è il dio del popolino che si dice cattolico, sta in questa classe insieme alla Madonna della tradizione e a tutti i santi. Ma anche il dio del popolino che si dice musulmano (che usa il proprio dio per restare attaccato al suo medioevo, a tutto vantaggio dei signori feudali - ma un po' meno dei poveracci che credendoci sul serio ci si ammazzano), e di quello che si dice ebreo (che usa il proprio per pura vanteria di stirpe e indebito possesso di suolo), e di quello che si dice buddista (ma invece prende del buddismo una versione da supermarket), e anche gli sterminati dèi del pantheon induista popolare (una tenerezza di sincero primitivismo - anche là, buono a coprire ingiustizie sociali assurde), e tutte le divinità dell'animismo di ogni continente e storia culturale, in purezza o in commistione con altre tradizioni sopraggiunte (con le buone o, più spesso, con le cattive della conquista coloniale e dell'egemonia sull'immaginario collettivo), e pure tutti gli dèi dei paganesimi e delle mitologie antiche - mediterranei, nordici, mediorientali, centroasiatici, precolombiani, egizi, oceanici...
Quegli dèi là stanno tutti qui dentro, nella classe degli dèi impotenti e un po' umiliati, che si vergognano dei propri credenti, delle loro richieste e pure di se stessi.
Io credo che se esiste un dio psicoterapeuta, questi dèi affollano il suo lettino ogni giorno a tutte le ore.
Perché non è facile, per un dio, esser creduto solo da chi al dunque ha tanta poca fede, ma proprio pochissima - da non confondersi con un'estrema, quasi patologica suggestionabilità.
Poi c'è la seconda classe. Più rarefatta e meno triviale della prima.
E' la classe degli dèi superiori. Quelli in cui crede la gente che per cultura, per sensibilità o per privilegio - o tutte e tre le cose - riesce a guardare la vita anche al di là del confine ristrettissimo della propria e basta. Al di là in senso spaziale e temporale.
Cioè: sono gli dèi creduti da chi ha cognizione degli umani in generale, non solo di sé (e parentame e clan), e ha cognizione della Storia umana anche prima e dopo l'esistenza biologica propria (e di babbo, mamma e figlioli eventuali). E questi dèi se la passano un po' meglio, in fatto di autostima - dal dio analista andranno molto meno spesso, semmai un training di self-empowerment ogni tanto.
Gli viene richiesto, dai loro fedeli, perlopiù qualcosa di non materiale. Del tipo: la serenità d'animo o la pace nel mondo - se parliamo di cose reali (sta per: in linea di principio realizzabili eventualmente) - e la letizia per i defunti o il ricongiungimento nella resurrezione - se parliamo di cose irreali (sta per: irreali proprio).
Ma tali dèi superiori ce l'hanno il potere di soddisfare davvero queste richieste? No, ovviamente. Però poiché trattasi di richieste che hanno una notevole componente psicologica, ossia di aspettative che possono nutrirsi di se medesime anche a lungo (voglio dire: se la pace e la giustizia nel mondo tu oggi non le vedi, ma credi che verranno perché il tuo buon dio le prepara, allora un po' è come se le vedessi già all'opera - o se i tuoi morti ti convinci che stanno bene, e che prima o poi vi rincontrerete, questo è un convincimento che al netto dei giorni più duri può reggere anche una vita), ebbene si può dire che questi dèi maggiori abbiano un potere equivalente alle profezie che si autoavverano: su spiriti, beninteso, non molto sottili dal punto di vista logico-speculativo, conferiscono in effetti ciò che promettono e per cui sono creduti. Ossia una certa dose stabile di serenità, assicurata la quale poi la gente con un po' di cultura e intelligenza e un po' di solidità materiale può pensare meglio a far girare ogni giorno la propria esistenza.
Questi fedeli qui - che tecnicamente non sono bigotti - mi aspetto che almeno ogni tanto alzino gli occhi al cielo, il quale ogni tanto un sorriso di grato stupore gliel'avrà strappato.
In questa classe di dèi superiori troviamo, tra gli altri: il dio del Vangelo (in tutte le declinazioni individuali che ciascuno gli dà secondo le proprie capacità di comprensione teorica e di ispirazione pratica - purché esercitate con buona volontà e retto pensiero -, il che configura dèi del Vangelo anche molto diversi gli uni dagli altri), il dio della Bibbia (idem), il dio del Corano (idem), l'entità superpersonale (il dio) del buddismo, quella dell'induismo, quella del taoismo (idem, idem, idem), e tutte le altre divinità apicali e il meno possibile antropomorfe o teriomorfe di ogni politeismo e animismo della storia (idem a piacere).
(Come avrete notato, per esempio il dio cristiano sembrerebbe stare nella prima e pure nella seconda classe. E così in fondo tutti gli altri. Possibile? Sì, perché per esempio il dio cristiano - come tutti gli altri - non è una cosa sola bensì un insieme di entità sterminate, ciascuna con le caratteristiche che gli dà un dato fedele o un dato gruppo di fedeli. Quindi è possibile. Tutto dipende da chi è colui dal quale il dio è creduto: un umano senza fede e senza intelligenza, o un umano con l'una e/o l'altra e quanta di entrambe. Su questa ambiguità ci fanno la scarpetta tutte le dirigenze di ogni religione. Il papa dice "siamo un miliardo a credere in dio padre di Cristo", l'imam dice "siamo un miliardo a credere in Allah", i confuciani dicono "siamo centinaia di milioni"... ma come ho fatto notare, gli amministratori delegati delle confessioni mondiali celano il piccolo particolare che - per esempio - il dio padre di Cristo creduto dal teologo Hans Kung è simile al dio padre di Cristo creduto da me quand'ero al catechismo, e da qualcuno tutta la vita, come un diamante è simile a un collo di bottiglia sul muro. Quindi occhio: le statistiche sono parte integrante del marketing. Io, per non comparirci più, mi sono sbattezzata e pure scomunicata.)
Infine, la terza classe.
La terza classe è facile. Ne fa parte un solo dio. Il dio vero cui accennavo all'inizio.
Che è il dio che non è creduto da nessuno. Pensa un po'.
Infatti, non si crede a questo dio - che è l'essere, tutto intero, né più né meno. Lo si sa, e basta.
E chi sa questo dio non gli chiede niente, perché sa che questo dio ha tutto il potere possibile.
E' un paradosso? Tu sai un dio che può tutto e non gli chiedi niente?
Non è un paradosso. Perché io so un dio che non solo può tutto, ma che è tutto. E quindi è me compresa, ed è ciò che voglio compreso, da sempre e per sempre. E che il suo potere lo esercita essendo, semplicemente. (Come dire che non ha alcun potere, come dire che non esiste alcun dio. Infatti.)
Lo dispiega - meglio - dispiegando il tempo stesso in cui ciò accade (così correggiamo anche la precedente concessione antropomorfizzante alla sostanzialità del tempo), semplicemente essendo. Einsteinianamente e spinozianamente. (Immenso Baruch!)
E non vuole, né progetta, né comprende, né valuta - e nemmeno desidera, tanto meno ama, odia, punisce, premia, né crea, o un'altra qualsiasi delle azioni dell'umano o di un qualunque altro vivente finito, che conosciamo o che possiamo fantasticare. Per carità, non facciamo il solito errore di trattare l'infinito come uno di noialtri mucchietti di atomi a spasso casuale nell'universo! Considerazione per me ovvia, ma giova qui ripeterla.
Il dio vero è (ossia non-è). Punto. Fico, no?
Occorre fede per sapere questo dio? Non direi.
E cosa occorre? Non lo so. A me basta esser fatta di queste molecole qui, per esempio, e di queste cellule nervose e d'ogni tipo che hanno assorbito quello che hanno assorbito - come continuano a fare e faranno. Ma non credo sarebbe una risposta all'altezza della curiosità con cui mi venisse rivolta la domanda. Però non ne ho altre.
E che vantaggi dà, sapere questo dio vero?
A me, per adesso, pochini. In effetti, a saperlo siamo da millenni una sparutissima minoranza - in un mondo e in una Storia edificati a immagine e somiglianza perlopiù dell'enorme moltitudine dei bigotti degli dèi inferiori e, in misura assai minore, dell'élite dei fedeli degli dèi superiori.
(Ma questa nostra minoranza da chi è composta? Prevedibilmente, da tantissimi degli scienziati, dei filosofi, dei letterati, degli artisti, dei rivoluzionari, degli umanisti in generale e dei liberi pensatori venuti a questo mondo - anche con scarsissimo calibro di pensatrice, come me. Scarsa, però libera.
E poi, un po' meno prevedibilmente, dai 'capi degli uomini' - categoria variegatissima, ma ci siamo capiti - che pur sapendo il dio vero, utilizzano l'altrui credenza negli altri dèi come principio d'ordine delle società e delle comunità grandi o piccole che dirigono. Non è difficile da intuire, no?
E infine, parecchio meno intuitivamente, ne fanno parte anche... i fondatori, i leader e le altre figure emergenti delle religioni che organizzano il culto degli dèi della prima e della seconda classe. Eh già!
Come come?!? Chi ha creato il culto di Shiva non ci credeva? E Bergoglio non crede nel dio che descrive in pubblico? E Isaia non credeva in Jahveh? E i maestri coranici delle madrasse non credono nell'Allah che insegnano? E i baba, variopinti santoni, non credono nel karma universale?
Già, io penso proprio questo - e così un sacco di altra gente migliore di me.
E precisamente penso che questi fondatori e profeti e santi - quelli in buona fede, intendo - si siano sobbarcati un gran compito: la traduzione, per l'Umanità semplice, della non-religione dell'essere in qualcosa che sia alla portata di tutti i comprendoni. Nell'attesa che questa portata man mano si elevi, si amplii e si raffini col cammino della civiltà, con l'umanizzazione più diffusa.
Quelli in buona fede, ripeto. Gli altri sono ciarlatani, sfruttatori della credulità popolare per i propri interessi. E fatevi da voi un'idea di chi sia di un tipo e chi dell'altro.
Torno a me. Che non sono scienziata, filosofa, letterata, artista, rivoluzionaria, umanista, a capo d'uomini o fondatrice di religioni.)
Per me non è facile, oggettivamente, vivere col senso della vista in una realtà di massa che non lo concepisce nemmeno, e che si organizza di conseguenza (questo topos sta in tanti bei racconti). Ma non voglio far lagne. C'è chi è stato e sta molto peggio di me: un tempo, da queste parti, o anche oggi - appena distante da qui -, chi si sbilanciava o si sbilancia in una chiacchierata del genere il potere lo seccava e lo secca.
Mentre io, ancora, sono in salute e in libertà. E pronta a studiare e lottare (non a pregare e sperare, quindi) per giustizia e pace.
Oh, vediamo di non esser smentiti a breve.
E in buona sostanza, per ogni essere umano trovarsi nella mente e nel cuore l'una o l'altra o l'altra ancora delle divinità di queste mie classi un po' didattiche, dipende esistenzialmente da una cosa concretissima come la reazione alla paura. Paura di vivere e di morire, di esser da soli ad affrontare tutto questo o di essere fin troppo accerchiati da altri esseri umani che scompostamente gridano e agiscono la propria, di paura.
E io? Io forse non ho paura?
Certo che ce l'ho.
Ma degli umani ho un'idea comunitaria, cooperativa, evoluzionista - e questo già aiuta.
E sola non mi ci sento mai, a camminare nelle temibili immensità dello spazio e del tempo: mi sento davvero in compagnia di ogni altro essere umano presente, passato o a venire.
Ma non soltanto: c'è un sacco di altra bellissima gente che cammina con noi!
Se vogliamo scoprire di chi si tratta, basta tornare un po' indietro nella scala delle ère terrestri e incontrare i fratelli e i cugini che sono nati come noi dallo stesso albero della vita - di tutti.
A sei milioni di anni da qui, all’indietro, incontriamo bonobo e scimpanzé.
A sette milioni di anni i gorilla, a 14 milioni di anni gli oranghi, a 18 i gibboni, a 25 le scimmie come i babbuini e i macachi, a 40 altre scimmie come i cebi, a 58 i tarsi, a 63 i lemuri, a 70 le tupaie, a 75 i roditori, a 85 i laurasiateri (cani, gatti, cavalli, maiali, pecore, orsi, rinoceronti, pipistrelli, foche, balene, delfini…), a 95 gli xenartri (bradipi, formichieri, armadilli), a 105 gli afroteri (elefanti, dugonghi, oritteropi), a 140 i marsupiali, a 180 i monotremi, a 310 i rettili e gli uccelli, a 340 gli anfibi, a 417 i dipnoi, a 425 i celacanti, a 440 i pesci ‘propriamente detti’, a 460 gli squali, a 500/550 le lamprede, a 550/600 gli anfiossi, a 600/700 le ascidie.
Dopo incontriamo gli ambulacrari (oloturie, ricci di mare, stelle marine…), dopo i protostomi (insetti, ragni, crostacei, molluschi, anellidi…), dopo ancora i vermi piatti, dopo ancora le meduse e i coralli, poi gli ctenofori, poi i placozoi, poi le spugne, poi i coanoflagellati, poi i DRIPs, poi i funghi, poi le amebe, poi le piante, poi le alghe.
A 2 miliardi di anni da qui abbiamo già incontrato tutti i discendenti da cellula eucariota.
Dopo incontriamo i batteri (che in forma ‘non indipendente’ sono gli organelli delle cellule eucariote), dopo ancora i virus.
E a circa tre miliardi e mezzo di anni da qui incontriamo l’antenato comune a ogni forma di vita sulla Terra – presente o estinta: una ‘matassetta’ di DNA protetta da una membrana proteica, entro la quale si muovono anche alcuni ribosomi che trasformano in proteine il codice genetico.
Già che ci siamo, a 4 miliardi e mezzo di anni da dove siamo partiti, a ritroso, si forma la Terra: da un ‘disco’ planetario in orbita intorno al Sole. A 5 miliardi di anni si ‘accende’ il Sole, a partire dal gas interstellare in movimento intorno al centro della Via Lattea. A 10 miliardi si ‘definisce’ la Via Lattea nella materia dell’Universo in espansione. A 13 miliardi e mezzo di anni da oggi e da qui, il Big Bang. Ancora oltre non possiamo immaginare di incontrare alcunché.
Ma pure solo così, direi che non è poco.
Alla fine non c'è niente di cui aver davvero paura! Viceversa c'è tutto da amare davvero!
...Fine. Invio.
Ora gli mando il link della paginetta, la leggerà quando atterra.
Gli piacerà sicuro. Quasi quanto il suo schemino.
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Cecilia e la ghirlanda
Finalmente era fuori. E quanto l’aveva aspettato, quel momento !
In effetti Cecilia aveva teso ogni muscolo e affinato tutti e cinque i sensi proprio con l’obiettivo di uscirne. E bene.
Trent’anni di vita. Studi discreti e lavoro mediamente gradevole. I primi amori finiti senza chissà che traumi, un tetto comodo e la famiglia presente. L’opposizione vigile e scettica alla banalità imperante, gli amici antichi a portata d’orecchio e un compagno, da un bel po’, tenero e appassionato.
Ma da cosa, era fuori ? Da quella stanza, sì, piena di luce e di camici. E però anche, una buona volta, dall’infanzia. Dalla stagione, cioè, in cui non ti viene permesso di decidere davvero. Se non nei dettagli superficiali, del tipo: votare centrodestra o centrosinistra.
Ora però Cecilia, al termine di un interminabile copione scritto per lei da non si sa chi, sul proprio futuro si era affacciata sul serio. E quello, il futuro, lo voleva libero. Poiché, al succo della questione, tutte le speranze le aveva riposte in sé stessa in quanto essere in continuo progresso. Un’evoluzione che la trasformava senza posa, e anche parecchio: una specie di continua reincarnazione.
“Va tutto bene”, si disse Cecilia. Eppure… eppure c’era quell’ansia, sì, quell’arsura acidula in cima al palato. Anzi, non era il caso di prendersi in giro: Cecilia in quel momento aveva paura, e con la chiarezza di un teorema matematico. Il fatto è che lei, adesso, riassumeva in sé parecchie aspettative. Quelle proprie, direttamente proporzionali alle esperienze fatte e al lavoro svolto per capirci qualcosa, e quelle della gente fiduciosa nei suoi confronti. E proporzionali anche a quel tanto d’invidia con cui la guardava chi l’affetto glielo simulava soltanto. Ma Cecilia aveva messo in conto pure quello: la tenace, e in sostanza innocua, insicurezza delle persone troppo semplici.
Però un conto è immaginarselo, cosa si farà il giorno che ci si scopre adulti (ed è perciò che si mandano a memoria pagine intere del tempo altrui: tempo fatto di cellule, e di celluloide, di carta e inchiostro, di tela e colori, di pentagrammi…), e un altro è vedersela davanti, a un passo, la nuova realtà: l’ulteriore mutazione, la fune sospesa sull’oceano delle possibilità, il tuffo a piacere – ora che le figure obbligatorie sono già storia. E diavolo, che vertigine !
Così accadde, che la nitida visione dell’inesorabile responsabilità trapassò tutte le difese di Cecilia. E arrivò fino al centro esatto del suo cuore.
“Cecilia, guarda chi è arrivato”, le parve a malapena di sentire accanto a sé. Ma Cecilia non vedeva: non con i soliti occhi, almeno, e né oggetti né persone, e di sicuro non là intorno. Piuttosto, in un’atmosfera irreale stava in qualche modo svelando, sgomenta, direttamente le idee delle cose, i loro nomi e i loro rapporti eterni. Sì: reminiscenze platoniche più panico allo stato puro.
Come te lo descrivo ? Diciamo… una galassia di dischi enormi, affilati, neri, gelidi, immersi in una notte indurita da bagliori di madreperla… uno ti sfiora ed è già lontano anni-luce, e tutto gira vorticosamente senza il minimo rumore… “Ma è così la… verità ?” si chiese a quel punto Cecilia “…E’ questo che sta fuori dal recinto comodo dei pregiudizi, dei condizionamenti ? E’ in un nulla così che prima di me si sono spinti gli uomini sensibili, le donne emancipate ? Vedono questo, i grandi, e papà e mamma ?... E anche Tommaso, l’ha capito, povero amore ?”
Sì, Cecilia. Sì a tutte le domande, anche se ognuno se la raffigura un po’ diversa, la scena: dipende dalla lingua, sai, dal clima, dall’età, perfino dalla dieta.
Sì, anche Tommaso.
Ma ecco che il caotico silenzio e l’oscurità baluginante, che avevano invaso il suo animo, furono spezzati da una cosa viva, benché impalpabile come una piuma: una piumetta calda, colorata, quasi pigolante. Cecilia, non so neanch’io perché proprio allora, ricordò con vividezza quei batuffolini da nulla usciti da piccole uova, nella vecchia gabbia di casa. Risentì tra le dita le stesse carezze, sul volto quello stesso sorriso, e ancora il canto armonioso e libero di altri ingranaggi in DNA, beccuccio arancio e livrea celeste. Cedette, accettò subito il suggerimento della propria memoria e “Ma certo !” pensò, “Anche questo è verità: dipende solo dal verso in cui si guarda !” E respirando profondamente riabbracciò il proprio essere, per intero.
“Ancora non ci credo“, diceva ora Tommaso, e la strinse a sé con dolcezza. Lei lo guardò negli occhi, riflessi sul cristallo. Le sembrò bello, Tommaso, e forte, ma adesso sapeva quanto dovesse essere anche lui spaesato da quella gran novità. Sentì la voce di suo padre in corridoio, dietro di sé sua madre e altre donne, e infine afferrò qualcosa che ancora le sfuggiva. E vide la propria bocca, e quella di Tommaso e le mani del padre di lui schiacciate con gioia sul vetro, e i loro fratelli innamorati, e gli amici e tutti gli altri, compresi quegli uccellini, come in una specie di anello, un anello enorme che occupava il cielo di Roma, l’orizzonte del Mediterraneo, l’intero Sistema Solare. Un’immensa ghirlanda, che si rimescolava continuamente in migliaia di colori diversi, che ruotava e sbuffava e s’ingigantiva sempre più, che dava un senso al tempo, alla vita, alla morte, alla forma delle nuvole, e che era il ritmo e lo spazio e l’energia… Che era l’altra faccia di quei brutti dischi freddi e neri, e anzi li inglobava tutti, rendendoli innocui come vecchi 33 giri in vinile.
Cecilia, ora, affacciata sul punto più alto di quell’anello straordinario, tendendo ogni muscolo riuscì a fermarlo per un solo istante e guardò giù, verso il punto più basso. Vide due piccole corolle galleggiare su tutte le altre: due minuscoli esseri umani: nuovi di zecca ! Parevano identici, e invece non potevano essere più diversi, più unici: una femmina e un maschio.
Avresti giurato che stessero osservandola a loro volta, dal fondo della ghirlanda, dalle piccole culle appaiate dietro quel vetro di nursery. Che studiassero il volto di chi li aveva custoditi e sognati, interrogati e nutriti in quei mesi. E che le augurassero – sì, proprio a lei – buona fortuna.
“Ho i nomi ! Ascolta… Nilo e Nurmi !” le sussurrò Tommaso sulle labbra, “Che dici ? …E non ci pensiamo più !”
“Pensiamoci, invece, amore mio…” rispose Cecilia, felice tra le sue braccia “...C’è tutto il tempo !”
La ghirlanda ricominciò a girare.
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Incessati spiriti
“Io adoro Rembrandt, e Keith Haring mi lascia inerte. Venero Dostoevskij, e Ruiz Zafòn è una presa in giro. Idolatro Gershwin, e la musica delle radio mi fa ribrezzo.
E per lui è uguale: la contemporaneità è scadente.
Ma non vi crederete mica che io e Pier Paolo siamo dei passatisti, nostalgici, reazionari !?
Al contrario, tutti e due non vediamo l'ora che venga il tempo in cui la Cappella Sistina e le pitture rupestri, i sonetti di Shakespeare e i versi rituali vedici, Mozart e i pizzichi arcaici al tetracordo... – che tutto questo sia rubricato e benvoluto dall'Umanità come un ininterrotto esperimento creativo della sua preistoria !
Sappiamo (Pierpa e io) che prima o poi ciò accadrà, che l'Umanità entrerà finalmente nell'epoca della propria Storia, coi suoi modi di produzione e organizzazione, di autoriflessione e modellamento delle cose e forme – secondo lineamenti che ora sarebbe impossibile a chiunque predire con chiarezza.
Allora – non prima – l'uomo e la donna genereranno e osserveranno la bellezza matura, l'armonia matura, l'emozione matura: rispetto alle quali il passato, tutto, sembrerà quel che una Venere di Willendorf sembra oggi a noi. E chissà mai che riusciranno a inventarsi, questi nostri pronipoti: lo vedremo, e di certo applaudiremo !
La sappiamo, questa verità, la desideriamo: non passa giorno che entrambi non si dica o faccia qualcosa perché tale futuro compia un altro passo verso il presente. Siamo totalmente progressisti, noi, altro che fermi al passato !
Ma – ecco il punto – finché il sistema di produzione e organizzazione è quello di oggi, uguale a com'è da che si ha memoria di una specie umana, ossia (capiteci bene) finché si dà e si darà sfruttamento dell'uomo sull'uomo, e sulla donna, sull'anziano, sul bambino – e su tutti gli animali superiori, anzi su ogni vivente, sul paesaggio, sul mare, l'aria, la luce e sull'intero geosistema – cioè fino a prima della rivoluzione decisiva, ebbene, ragazzi: la bellezza è quella classica. Classica come la pittura fino a Picasso (compreso), come il racconto fino a De Luca (compreso), come l’intrattenimento fino ai Beatles (compresi).
Senza sconti né scorciatoie: non ce provate ! Un'opera d'arte brutta, o falsa – che è lo stesso – non fa fare all'Umanità un solo centimetro in più verso il progresso: è soltanto una tela o una pagina sprecata – tempo perso a crearla, perso a conoscerla.
(Non parliamo poi della vostra televisione, per carità di spirito !)
Guadagnateveli con la rivoluzione egualitaria e vittoriosa, piuttosto, il diritto e il gusto di fare un'arte, una musica e una letteratura diverse e migliori di quelle che – ci intendiamo – cominciano con A, M e L maiuscole !
E fino ad allora, studiate come riuscirci.
Ecco, ora prendeteci pure per due conservatori !
Tanto che ce frega a noi, eh Pierpa'?
...Certo che 'sto fregno de sasso qui all'idroscalo di Ostia è bruttarello forte, ve' ?
Ma non te ce potevano mettere una cosa un po' mejo, più armoniosa... più classica ?
Il capoccione mio di bronzo a Campo de' Fiori, già è meno spigoloso...
Vabbe', mo' te saluto. Ciao Pierpa', rientro a Roma che è sera.
Ci vediamo !
...Anzi, la prossima volta passiamo a prendere quel musone di Giacomino, il marchigiano, e tutti insieme si fa un salto a Ravenna, dal sommo padre Dante: eccone altri due, che la posterità si crede che fossero nostalgici del bell'ordine andato, e invece tutto quello che vogliono è che arrivi domani per tutti – ma un domani davvero, però: di dignità, libertà, fratellanza, uguaglianza !
…Dài: così ci facciamo due chiacchiere tra noi quattro, eh Pierpa' ?
Ciao, vado.
Stai bene, qui c'è il mare.”
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Come legno di viola
Chiara, ancora adesso, cerca ogni tanto un’estremità di quel filo. E comincia a tesserlo di nuovo per ricombinare le impressioni che le sono rimaste dentro, e intorno.
Questo pomeriggio, per esempio, senza forzature ma con un vago appetito di poesia, sta man mano trovando: un rotolio di candide chioccioline che il vento lieve confonde, soffiate una sull’altra lungo il ciglio di un muretto in riva al fiume; il mormorio, un ridere timido e accaldato, che accompagna la passeggiata nel meriggio dei seminaristi di San Pietro, bianche tonache esili; un capino canuto, che l’innata delicatezza e un pudore nuovo reclinano in avanti nella pietà che riveste l’anima nuda dello sguardo; lo spumeggiare amoroso di lenzuola, gonfie di muscoli in tensione e sillabe non più timide, calde della luce che fende la parete. E ancora, dipanando e aggomitolando: l’indiscreta calotta di un osservatorio impettito nell’azzurro, dischiuse appena le labbra metalliche a respirare una possibile infinità; un pulviscolo di petali d’arancio, nel mulinello che lievita e s’espande al riparo d’una loggia affrescata deposta sulla chioma di Roma; e alcuni mucchietti d’ossa calcinate, e teschi e vuote orbite, a giustificare una volta bassa e lucidata dalla teorie delle candele.
Per quinta, una danza immobile di nuvole. Prospetto parietale delle coltri che vanno scolando sulla pianura, solcate a più alto volo da un’occhiata che vi riposa la trepida speranza.
- Mo’ l’hai fatta proprio ‘n pizz’ar cornicione !
- ‘Sto ‘mbriaco, frociabeata !
E com’è consueto, un appetito ne richiama di diversi. A un’atmosfera se ne sovrappone un’altra, ed ecco che Chiara non può fare a meno d’intrecciare tinte più sanguigne ai tenui colori di quest’inizio di matassa.
Ha la memoria dei suoi tredici anni, ora, solo in parte trascorsi a Bastia dove l’ha fatta nascere il caso di un imprenditore meccanico italiano appaiato da una sera elegante a una giovane còrsa di buona famiglia, e perlopiù vissuti tra Marsiglia, Milano e altri ampi appartamenti, tra due lingue, in un mosaico di scuole e senza molti amici. Appunto ricorda.
Ed è a Roma, sul profilo del Monte Mario, prossima al padre estenuato dall’installazione di un’antenna importante e dalla disabitudine di alcune braccia locali a prendersi comunque sul serio.
Oggi stesso a Marconi, all’inventore, viene assegnata la cattedra di Onde Elettromagnetiche all’Università. Oggi s’inaugura il Museo Astronomico e Copernicano, qui sul Monte Mario.
C’è ancora trambusto, a traliccio montato, ma gioioso. Come per ogni varo.
A Chiara presentano troppe persone perché si fissi nei suoi occhi neri ciascun sorriso. Piuttosto, tra i graziosi parasole cerca le brune anse del fiume, solitario, che si fregia di un ponte turrito e antico e, più a valle, ormai nell’abitato, riflette il massiccio latteo di un edificio della Nazione.
Scorre lento il suo sguardo, tra macchie di luce e ombra dei giovani pini e bambini in blusa e berretto e uomini con la tuba. Fino a un volto, su cui si ferma.
Chiara tuttora si distende, a rivederselo nelle palpebre, mentre ascolta l’eco di una risonanza.
- Io sono Chiara.
- Chiaro anch’io… quasi: mi chiamo Leuco !
Alcune ore dopo, rientrando in casa, proprio sul portone di via della Dogana Vecchia domanda a sua madre quanto debbano restare ancora nella città di Roma.
- Au moins trois ans, ma petite.
Risponde la donna. E la ragazzina sorride alle due grandi colonne adagiate sul lastricato della piazzetta vicina.
- Lo sai che a Trastevere c’è la tua chiesa ?
- Santa Chiara ?
- No, San Crisogono: la chiesa dei francesi di Corsica.
Leuco ha già compiuto diciassette anni, suo nonno è il custode del nuovo museo. E le sue mani a Chiara sembrano più belle e più agili di quelle di qualsiasi altro ragazzo.
Si muove per Roma come visitando un giardino, e almeno una volta alla settimana ne offre alla nuova amica, curiosa, una porzione ragionata.
S’incontrano dopo la scuola, o di festa. Lei, con l’indipendenza e il giudizio dei nomadi; lui, con la parola franca e la bicicletta dei timidi. Parzialmente al riparo, entrambi, della stagione acerba: dalla dittatura che asfissia le donne e gli uomini.
Quel pavimento intessuto come un merletto d’alveare resta a Chiara sulla rètina, mentre lasciano il tempio e l’intricato rione e risalgono l’argine destro del fiume fino a zone più recenti. Leuco la protegge dai trentamila all’assalto dello Stadio del Partito per le gesta di capitan Allemandi, e si fa persuadere alla dignità del Politeama Adriano: a una pomeridiana di Santa Cecilia per cui Chiara ha commissionato due inviti al dottor Roberto suo padre.
- Ma i tuoi sentono sempre quella musica... classica ?
- Veramente mia madre preferisce il jazz
- Bello… Che sarebbe ?
- …Musica americana senza parole ! I dischi se li è portati dalla Francia, qui dice che non si trovano… Comunque, a sentire una canzone di quelle sembra che ogni strumento vada per conto suo, tranne all’inizio e alla fine che suonano tutti insieme. Però fa venire voglia di muoversi, o di ridere… Una cosa così.
- mmm… a casa mia si sentono Filogamo ! E io suono la concertina, un po’, di nonno Candido.
Nel viale transitano poche autovetture. Una piccola e tonda, che Leuco chiama Topolino. E una doppia fila di giovani con la veste talare e il saturno a tesa larga: sembrano bambini in maschera da diacono.
Sullo sfondo, i morsi di uno sbancamento imponente. L’estirpazione di un intero quartiere.
Il ragazzo per un istante si rabbuia.
- Stanno strappando via la spina ai Borghi.
Accelera, si arresta, e nelle dita di Chiara riprende la corsa il filo cangiante.
Il secondo compleanno a Roma, il venticinque di settembre, e poi con Leuco fino ai giorni più corti dell’anno. Tra confidenze e differenze.
Gli itinerari si estendono, toccano Pinciano e Coppedè. Che a Chiara sembra un nome bellissimo per un tassello di città. I villini, le aiuole, le fontane, i mosaici non hanno neanche vent’anni, eppure essi vi percepiscono il riverbero di un’antica novella. Pirandello sopravvive lì vicino, in una casa d’angolo, ma non scrive più.
In cima a un ritorno entro le mura li raggiunge ansimante un amico allampanato.
- S’è fatto male Werther ! …Ciao, Chiara.
- Che è successo ?
- Stavamo a gioca’ ar campetto, e so’ arivati da la borgata !
- I sallazzarini ?
- Si’. Certe facce… Semo corsi via. Però a lui l’hanno beccato co’ ‘na serciata, e è cascato a capriole giù per’ ‘r monte !
- E voi ?
- E noi corevamo, Le’ ! Che vòi fa’ la guera co’ quelli ?
- Certo che no. Ma Werther ?
- ‘Mbe’… Noi dovevamo ancora capi’ ch’era successo. Io vedevo solo che quelli s’erano fermati, però nun se n’annavano… A ‘n certo punto vie’ fòri dall’erba Laura…
- Laura ?
- Lauretta de via Premuda, coll’occhi azzuri…
- Ma avrà dieci anni…
- Nove, me pare, Chiare’… Fateme fini’ ! Je s’è avvicinata… Lui che strillava che s’era rott’er dito… E allora finarmente se ne so’ iti i borgatari ! Ar che noiartri se guardamo e aritornamo indietro… Laura lo stava già a cura’, aveva spaccato l’assicella dell’aquilone che ce stava a gioca’ prima, j’ha messo du’ pezzi affianco ar dito rotto e cor nastrone de coda ha stretto tutto quanto ! Poi a forza de bacetti l’ha carmato… Mo’ sta ar Santo Spirito, ma è più lo spavento.
- Meno male !
- Si’, ma si torni a Prati sta’ in campana ! Che i fiji dell’autista de Colonna vonno risali’ ar campo coll’amici avanguardisti… pe’ fa i conti ! Ce sarà casino.
- Ah, ecco per chi erano scesi da San Lazzaro ! Vabbe’… Pertica, grazie.
- Ciao, Pertica !
Chiara continua a giudicare un privilegio aver appreso tanto presto ciò che per alcuni resta incomprensibile a vita.
Sente la propria voce domandare:
- Sono cattivi, i ragazzi di quella borgata ?
E Leuco accostarle:
- No. Sono disperati. Sono i figlie dei manovali in galera per la politica. Eppoi sono troppo poveri per riconoscere i loro nemici, quelli veri. Pure quello è un lusso.
- Cioè ?
- Cioè, io credo che tra fame e ragione…
- Ha ragione la fame… E’ così ?
Il filo può ben essere elettrificato, poi. Per esempio come quello sopraelevato che nutre la marcia del mezzo di trasporto più moderno di Roma, e strozza perciò la secolare parabola di vetturini e facocchi.
- Facocchi ?...
- …I falegnami che costruiscono i carri, i calessi… E i cocchi. Infatti, senti: fa cocchio, facocchio ! No ?
Leuco, oggi che la Sapienza è chiusa, scende insieme a Chiara sul filobus fiammante da ponte Milvio e piazza del Popolo. Il Tevere è gonfio, quasi ricco anch’esso di quel loro sentimento. Inconfessato, che non ce n’è bisogno. Ricco, il fiume, ma non tenero altrettanto: nei giorni scorsi s’è inorgoglito di una piena vera, sedici metri e passa al molo di Ripetta.
- Là sotto nel venticinque è sceso De Pinedo coll’idrovolante… Un trionfo ! Però io me lo ricordo appena.
- Un po’ più giù – aggiunge tra i denti una donna robusta, con la sporta floscia al braccio – …più giù, l’anno prima hanno ammazzato Matteotti. Questo tanti se lo ricordano, però fanno finta de no.
Lo spazio intorno a lei magicamente raddoppia.
- State attenta, signo’… Che chi magna le lumache poi rifa’ le corna ! Co’ rispetto parlanno.
La fronte di Chiara decide di riposare un istante sull’omero forte di Leuco. Che la trattiene; e una lunga ciocca dei capelli di lei, color del frumento maturo, si spinge fin sull’altra spalla.
Al di là di un atrio monumentale, sullo schermo del cinematografo s’inseguono gli eroi di Gallone. Ma Chiara non sa ora ritrovarsene un’impressione notevole.
La matassa prende invece a ingarbugliarsi con l’oscurità della sala in certe scene, e con la prossimità dei loro gomiti; e con una sincronia tra le rispettive frequenze cardiache, tale da farle dubitare ancora che il clangore delle daghe quiriti sui punici scudi potesse coprire simili rintocchi.
E per quanto sulle prime destino sconcerto, i dati le si rivelano con un nitore da dirsi geometrico: Leuco è anche un giovane uomo, e Chiara ha anche il corpo e i pensieri di una donna. Ormai di sedici anni.
Il sapore nuovo del respiro di lui le si insinua in fondo al palato, con stupore inebriante.
Un bacio, benché rapido e incredulo, pure è un bacio. E scoperchia lo scrigno dei desideri. E dell’intima determinazione.
Dalla platea al loggione remoto s’arrampicano Chiara e Leuco in una gioia disinibita. E da lì alla terrazza attraverso mezzanini e intercapedini, lascito d’architetto per l’audacia dei giochi d’infanzia.
Parole più consapevoli si accavallano a ebbri silenzi, a effusioni più plastiche.
Nello stesso isolato è il laboratorio di Fredi, il liutaio, sul cui primo aiutante Leuco conta per antica amicizia. Minime le spiegazioni richieste al bussare, sebbene imprevisto, sull’uscio aereo esposto all’obliqua luce d’estate. Il ragazzo lascia i due entrare, e poi soli. Nel vano di maggior conforto.
La donna guida l’uomo, l’istinto l’età.
Le scale incomplete dell’accordatore, all’opera dietro chissà che tramezzo, sospendo l’aria sopra la pelle. Chiara afferra le note tra i riccioli morbidi di Leuco, castani come legno di viola, e poi le scivolano dalle mani sui suoi fianchi mobili.
Il sottilissimo canapo del loro piacere si tende e si flette ai toni più acuti. Leuco la bacia laddove Chiara riemerge dall’onda spumosa e gorgoglia, nelle sue anse sudate.
Un riflesso di fiume sotto un sole a picco colora gli occhi dell’uomo, e la donna si tuffa in quel flutto verde. Nuota contro la piena montante, lo chiama ancora e Leuco risponde. Dentro il suo corpo. E ride, di una sconosciuta felicità. Di una lingua nuova.
Si amano, si amano dello stesso amore l’una un attimo dopo l’altro.
Più tardi, più calmi, le gote purpuree di Chiara al lume del suo portone raccontano alle dita di Leuco la storia della loro comune crescita, così com’è andata e non si è perduta.
Poi Leuco pedala leggero verso la sera, e Chiara sale sul sontuoso ascensore spandendosi di letizia.
In casa, a metà dell’ampio corridoio trova sua madre Pauline. Che l’accarezza e l’accompagna fino in camera sua, per parlarle.
I suoni raggiungono Chiara prima che la bocca li abbia emessi.
- On ne peut plus rester, mon amour… Papà ci porterà al sicuro. Ma lontano.
Chiara sbanda in un vuoto d’aria.
- Ce sera bien tot. Potrai salutare Leuco. E nessun altro. Il me displait, mon petit chou.
Ma recupera. E guarda un sospiro ardente di scirocco aprire il suo diario sul primo dei tanti fogli ancora immacolati.
Sopra una specie di commiato il cielo è terso, come di rado all’ora del pranzo. E il cibo semplice e gustoso e la brocca del vino gentile descrivono lente traiettorie fra le mani e le labbra dell’anziano custode del museo e quelle dei due giovani.
La tavola rustica non dista che un passo dal cambio di pendenza con cui la radura cade verso le prime abitazioni. E così cadono i mezzi discorsi tra pepite di cacio, ciliegie a manciate e un mazzetto di crochi affacciati a un bicchiere.
Più in alto, la nuca bianca dell’osservatorio rivela la fessura da cui gli scienziati indagano, con lenti, lastre e filtri, indagano l’attività dell’astro diurno.
- Così, hai scoperto pure l’ossario dei Frati a via Veneto… Bravi… Ma come se deve fini’, eh ? …Occhio all’animaletti sulla tavola…
- Grazie, signor nonno Candido !
- …E insomma, Chiara, tanti anni fa lavoravo in portineria all’università: la vecchia sede di San’Ivo…
- La spirale di Borromini !
- Quella… Allora, per un lavoretto che gli ho fatto appresso a un disguido postale, Carducci… lui proprio… mi regalò un libro, con la dedica ! Una raccolta di poesie sue… Lui aveva una sessantina d’anni, io venticinque… e m’ero sposato da qualche mese.
E qui tace un poco, Candido. Poi annusa il nipote.
- Te la ricordi nonna, sì ?
Leuco sorride.
- E’ fortuna, la vita, giovincelli miei. O invece è ‘na fregatura ! Comunque lei da un pezzo che s’era stufata de tutta ‘sta fanfara. E così la sorte ha voluto che si risparmiasse l’Impero, il fuhrer sul Campidoglio, le leggi contro gli ebrei… Invece a me il fascismo mica mi risparmiava se non ero solo un vecchio che sbuffa da qui sopra, a ‘sto montarozzo de periferia !
Si pulisce il palmo della mano sfregandolo contro l’anca ossuta. E nell’apertura della sacca del pane fa comparire il libro, un volumetto esausto che porge a Chiara.
- Io mi ci addormenterò, quassù Monte Mario… Tra le case e le strade là sotto, le vedi, già ci ha chiuso gli occhi Libera… E magari c’invecchiassero i figli miei in santa pace ! Ci sono nati e cresciuti i nipotini, in grembo a ‘sta collina verde, co’ tutti gli amici loro. E pure ‘sto campione, certo ! Però cinquant’anni fa per me era solo una gobba lontana intorno alla Roma che conoscevo io. Tutto qua, Monte Mario. Ma un giorno diventò pure quella poesia, dove adesso tieni il dito te… Chiara, leggi.
E lei scivola tra le rughe della carta, non indugia sui vocaboli, cerca le immagini, le riconnette a una musica di sillabe. Tuttavia un significato le si addensa dentro… o forse è solo ora, questo pomeriggio di tanta vita dopo, solo qui un senso si sta manifestando: l’innumerabile stirpe umana al cospetto del proprio destino.
L’ultima pagina Candido e Chiara la voltano insieme. Lei, con due polpastrelli ambrati; lui, con l’intimità dell’a memoria e un alito di voce.
- Fin che ristretta sotto l’equatore / dietro i richiami del calor fuggente / l’estenuata prole abbia una sola / femmina, un uomo, / che ritti in mezzo a’ ruderi de’ monti, / tra i morti boschi, lividi, con gli occhi / vitrei te veggan su l’immane ghiaccia, / sole, calare.
E come a ogni ascolto di questi versi, Leuco non può non cercarlo, il sole, con un’occhiata protetta dalle lunghe ciglia malinconiche; e rassicurarsi alla calura ancora inalterata.
E come ogni volta che il filo le giunge a questo tratto, Chiara ricorda che per altri incerti giorni da quello il mondo avrà oscillato sulla corda di un’esile pace, per poi rovinare nella carneficina. Ricorda che il tepore del dì sarà stato congelato per anni dall’urlo e dal pianto, e che il sole stesso avrà subìto l’eclisse blasfema delle ceneri dei campi di sterminio. Ricorda che il vasto Paese al di là dell’oceano, dove riparerà abbracciata a sua madre e a suo padre e dopo li perderà come vuol natura, insieme ad altre illusioni, avrà irreparabilmente acceso la vampa di astri mortiferi sopra umane mattine e sui decenni a venire.
Ma tutto questo lo sa solo adesso. Mentre allora intende soltanto ciò che vede e sente: che il pasto e le parole proseguono ancora un po’, che Leuco si alza e ringrazia e saluta il nonno, che lei lo bacia sulla guancia appena pungente. Contenta almeno di poter lasciargli i quattro fiori raccolti.
Affrontano il declivio per mano, e Chiara a metà del crinale si volge ancora alla sommità. Verso i pini solidali e l’antenna, montata già son quattro anni.
E’ l’ultima volta che osserva questo quadro. E’ l’ultima sua discesa dal monte delle stelle, del vecchio e dei cerambici.
- Stasera nevica a Sanata Maria Maggiore.
- Portamici, Leuco. Voglio vederla.
A sera non cercano molte parole da dirsi. Ma respirano insieme, questo sì, nell’aria spessa d’agosto tremula di un volo di petali bianchi che la fede popolare tiene in pegno dell’antico miracolo.
Chiara capta la piazza supplicare ancora, allacciata intorno al Papa nuovamente romano: che cessino le privazioni, che la guerra indietreggi.
In quel preciso punto, crocevia fra carità e paganesimo, ognuno staziona il tempo di un desiderio di pane, di carne, di amore, di pace, di vita. Una donna assai anziana, un lembo di panno sulla piccola testa e la corona tra le mani rattrappite, chiede l’inammissibile. E subito dopo se ne vergogna, nascondendo lo sguardo. Chiara adesso ha capito.
Nell’ondeggiare salmodiante, Leuco in silenzio brucia l’incenso dei propri voti: libero il Paese, libera l’Europa, salvo il mio mondo, salva lei. Che sta per giungere all’altro estremo del filo e per entrambi domanda la pena minore, o invece la forza per reggerne l’impatto frontale; allora e sempre.
Poi si separano, pietosamente mentendo la convinzione di ritrovarsi presto l’uno dinanzi all’altra.
Presto… non bastano sessant’anni, riconosce Chiara in un fiocco di pensiero.
E dietro c’è un bacio lunghissimo.
Il giorno dopo è davvero frenetico di abiti e libri e posate e fotografie del Cardo da stipare in poche valigie, e molto di più da lasciarsi alle spalle. E’ una cacofonia di telefonate convulse, un secco serrarsi di imposte, una corsa sul rettilineo della via Salaria fino all’Aeroporto Littorio.
L’ultimo nodo si scioglie, nella gola di Chiara schiacciata sul proprio sedile al decollo. E la lama di un’elica he divora il cielo ne taglia di netto un capo.
Ecco.
Ecco anche oggi placata una sete. E avvolto un nuovo gomitolo.
Come ciascun altro, contiene soltanto qualcosa. E non tutto.
E ciò che vi si trova può ben essere anche altrove allineato, ma in ordine magari diverso. O pronto a differenti risonanze. Comunque vibratile, anche solo a sfiorarlo.
Una quantità di matasse di ogni colore, trama e lunghezza, Chiara porta con sé. Le ha filate nel tempo che la sua vita e lei negoziarono sempre fosse legittimo spendere nella ricapitolazione. La maggior parte di esse ci porrebbero sulle tracce di quel che Chiara ha vissuto, conosciuto e amato dopo la sua partenza da Roma; altre, tra cui questa, custodiscono, reinventano forse, i suoi giorni tra il millenovecentotrentacinque e il millenovecentotrentanove.
Chiara si è ormai fatta l’idea che una cosa del genere capiti a tutti, o quasi; e senza dubbio a coloro per i quali abbia provato un sentimento di affetto profondo.
E’ per questo che, mentre obbedisce all’ingiunzione quasi metafisica di allacciare le cinture di sicurezza, confessa la proprio volto riflesso dal plexiglass dell’oblò:
- Posso anche mostrarglieli, i fili dei miei ricordi, stasera per la sua festa. Ma non sarà un regalo: dovrà essere uno scambio ! Sempre che Leuco non sia troppo vecchio per ritrovare i suoi. Capirai… ottantun anni ! Non sarà certo come me, in piena fioritura !
Un sorriso furbo e un nulla triste Chiara rivolge all’antica cupola grigia, che va ingrandendosi nel riquadro sull’ala mentre qualcuno nomina Leonardo da Vinci. Poi si accarezza l’acconciatura color delle nuvole, debitamente spruzzata di lacca fragrante, e riprende a leggere il quotidiano offertole dalla compagnia di bandiera.
La data è in alto a sinistra: domenica ventitre gennaio duemila.
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Cicloversi del Danubio
LA PRIMA, BUONA [3 agosto, Germania: Regensburg - Straubing]
Il fiume più del mare parla umano. Dice di morbidi abbracci e ricerca d'ordine,
Tutti. Ma questo oggi e dopo dice in diverse voci D'ogni dove, di chissà quando,
Rimbalzo da sponda e sponda, rincorsa tra sponda e cielo, Riflesso argentato, eco di scure fronde.
Noi, su ruote infinitamente più brevi: in ascolto Dell'acqua veloce, dello sbatter d'ali,
Dell'acqua rilenta, d'altre ruote a paia... Osserviamo, tutto che scorre.
Osserviamo osservati dall'alto, fatti nodi di rete. Benedetti, dall'aria e nell'aria
Che tutta consente, e sorride della realtà E monda i pensieri, fra trecce di farro e spighe slanciate.
Un Tedesco confonde Danubio ed Olimpo, ma il fiume ci scorta più avanti.
DAL CIMITERO DELL'ABBAZIA [4 agosto, Germania: Straubing - Niederalteich]
La morte insegna l'assenza. In battere, come una campana in soggezione mentre commuove.
Chi non la impara cerca consolazione E ben venga il cipresso, e l'ombra quieta riparo al ciclista.
La morte, essenza della vita: tutti conduce, troppo influenza. Come un atleta al traguardo tagliavo un filo di ragno, fra tombe
Messe lì, a colmare di granitica presenza vuoti insaziabili. Poi un altro ragno incontrammo, anzi un insetto, anzi un uccello...
Per questi solo la vita conta, e va guadagnata ogni giorno Nella savana che sia, in fogna o nel campo ordinato dal fiume.
Noi invece, contraddizione cieca, la pretendiamo. E non ci basta. E allora: la poesia che valica il tempo, queste case ben costruite...
Piccoli eredi nostri signori, tutto l'affanno per quale potere. A nulla servono, certo non ci salvano. A salvarci sia una poesia come questa da nulla, tra cielo e pannocchie:
Libera, pura e leggera come pochi amori toccati dalla grazia
UN GIORNO DI SOLE [5 agosto, Germania: Niederalteich - Passau]
La felicità è facile col sole. E allora sia: una felice facilità. Leggera, come il volteggiar del nastro condotto con grazia da mani sapienti.
Ed ecco il primo ossimoro: sapiente e facile. Ma è col sole soltanto che l'ombra si svela. Ed ecco, smaschera il trucco ! Una frivolezza, che voleva casuale: il bene più prezioso.
Frivoli certi omaroni di queste piazze, paradigmi di un bene diverso. Paradigmi diversi di un frivolo bene, su ogni piazza di questo paesone.
...La mia casa è il Paese ? La mia casa è la lingua ! Pesante catena: impedisce altrimenti felici affinità...
Facile sarebbe altrimenti. A bastarci, l'intimità di sorridere a Mozart. Facile, infatti: per allenare orecchie argute, non pigre, raramente paghe.
E' felice questo nastro d'acqua, allenato a percorrere il Mondo Con grazia quasi celeste, e sapienza meritatamente terrena.
Perché la felicità è facile col sole. E allora sia per chi pedala: una felice facilità.
TANTI E UNO [7 agosto, Austria: Linz - Grein]
L'Uomo è un animale, fuor di dubbio, sebbene tal pensiero ormai rifugga. Questo, o questo quasi, compone l'orma multipla di uomini e donne in marcia
A piedi o su pedali: poco importa, Però fa effetto. Grappoli di schiene, il ventilatore dei polpacci, saluti diversamente musicali...
Solidali, per un tratto breve di un non lungo tragitto. E allora si va, come onde verso la foce accavallandosi senza arrocco,
Sfiorandosi, scambiandosi un testimone virtuale di gioia condivisa e vento, il medesimo, sul viso. Poi rallenti, o t'affretti, e sei solo o sola ancora. Ancora un poco. Ma è male ?
Non per il viaggiatore, col suo bagaglio leggero di suggestioni, eco e riflessioni. Invece sì per lo sperso nel nulla. Un naziskin ruota la piazza, con una larva e un cesso.
Solo, dunque, con due altri. Senza note lievi da richiamare, priva di frecce la faretra della sua anima. Plurale quindi si srotola l'umano, se prima plurale è il suo cuore.
Padrone, allora, della propria singolare esistenza, signore del suo destino e della sua terrena felicità.
VIGNE A TERRAZZA [8 agosto, Austria: Grein - Durnstein]
Foss'io poesia pur il canterei. Ma non sono che sillabe artigiane, e tanto meglio ! Un tributo bisogna pur renderlo, alla formula che tante e tali strade schiude.
La prosa della vita: onesto conto di mezzi e fini, e somma e resto e riporto. Che a ben guardare, tutto - quasi - è deciso dalla volontà... ove non sia lasciato al caso.
(M'affaccio:) Grand'opra d'attento cimento è stilla. ...Miliardi di storie, tutte diverse, ma sulle migliori brilla coerenza.
Hans, prendi a caso, che incide a terrazze la vigna Ha ben chiaro il disegno, al cui servizio immola mani e schiena e sapienza.
Josefa dà il suo: attenzione e certezza, o speranze, E un po' di rigore, pungolo per la mente, che onora le promesse.
Ma il tradimento incombe: nuvola nera e gonfia di grandine, E la disciplina di Hans e Josefa soccombe senza produrre frutti. Forse.
O forse due settimane di sole generoso, a prender per mano l'impresa, O magari nemmeno, ma due anime più forti, più limpide e belle,
E favella, s'io avesse l'ale a cantarne la bella sorte.
LA PAURA [12 agosto, Austria e Slovacchia: Vienna - Bratislava]
Ingorda curiosità ci conduce ad imparare nuovi paesaggi e suoni inconsueti, L'occhio aperto sul palmo della mano, la sola trincea di un libro che scavi,
E scova angoli di paradiso e fisionomie altre, apparenze che schiudono mondi esterni. Ma l'occhio è mano: dà forma pretesa al Mondo. E pretesa e disattesa la mano si danno.
Questa, appoggiata sull'altra, in un istante d'amore dorato. E quella, che brandisce l'odio suo contro un nemico inventato. La paura è reale, però. Sforbicia il fiato in gola, scoppia le orbite e piaga le dita.
Ognuno fa fronte come può: mira attento e colpisce capace, il bersaglio sbagliato. Dietro ogni cantone l'ombra s'allunga e minaccia, e tutte fondono in piombo il chiuso orizzonte.
Se solo avessero, tutti, quello che basta ! Il cielo si farebbe limpido Di chiarità sazia, piena. Vuote pance, vuote teste e orbite vuote: quanto ancora ?
Almeno finché vane pretese di egoismi prepotenti decideranno la roulette dell'umana miseria. Il numero fausto, oggi, ancora, ci toccò in sorte, e la vita sorride.
E i nostri occhi, benevoli, sognano un mondo di genti diverse che si scambiano il meglio, migliorandosi.
NON TI CAPISCO [15 agosto, Ungheria: Gyor - Tata]
E poi c' è il giorno che non ti capisco. Il giorno, appunto: e non è i. Umana imperfezione, penso, che non si piega a logici disegni e ferree volontà.
Quel giorno poco vale metafisica ad assiomatizzare. Non mi piace: punto. Quel giorno arriva improvviso e sempre mi sorprende disarmato.
Due carte da giocare, solitario e non vorrei: lo spazio intorno e tempo, che porti a un bacio. Eppur non è lo stesso, da solo, non è la stessa magia.
Irrora inoltre altro seme nascosto: l'autosufficienza chimera senza aggettivi, E i binari divergono impercettibilmente. Ma la mente fa giganti i nani.
Terzo seme a insidiare, l'obiettività: nana gigante anche la gioia dell'ora felice ? Ecco, mi scopro pessimista. Sarà paura della felicità ? Parola sopravvalutata, e per questo troppo facilmente desistita.
Torno al personale. Non ti capisco. E quanti non ti capisco, in matura memoria ! Dicevamo: la logica non vale. Facciamo valer l'istinto, allora !
E la percezione, che dà pesi diversi alle stesse misure. E la tradizione, valga. E in extremis il mito ! Memoria è amica pure, Che riconduce la miopia di un momento alle note gioie del cuore e della carne.
Il coraggio di scrivere tutto. E l'amore, per farlo !
UNA LIBERTA' [17 agosto, Ungheria: Esztergom - Budapest]
Conoscere ciò che davvero ci piace, e perseguirlo: questa è per me la chiave, questa dolce fatica. Altri modi si danno, ovviamente: l'umano cammina, l'umano veleggia, l'umano romba il motore...
Ma quella sensazione di non bisognar d'altro, l'aria pura sul viso e nelle nari... ...Lo stomaco e le farfalle, insomma. E canticchiate pure, se volete !
Altrimenti la musica sarà il vento, e il film scorrerà sotto gli occhi di chi torna bambino. E il caldo nuoce il meno, la velocità saggia lo smussa e stempera,
Ogni metro percorso significa, ogni pedalata inebria il cuore, All'acqua per caso intorno si fa cenno grati. Quella dall'alto, evitarla ! Ma comunque...
Il verde sorprende con mille sfumature e benevolo arreca sollievo dopo una volata, Velocità - sì - ma saggia: cioè quella per prender conoscenza e passo. Quella, per verità, di gambe cittadine, impiegate...
Protagoniste, si lasciano accarezzare dal sole mentre cavalcano beate fino alla meta. E la meta, ancora una volta, si è fatta toccare: sogno e progetto fatto massa viva, e premio.
...Il viaggio - tutto - è la meta: ogni villaggio sfiorato, ogni pensiero cullato, tutta la gioia dentro e intorno, Gioia nuova ogni sera, gli occhi negli occhi pieni di spighe, e la parola che rincorre parola.
Nasce un gioco nuovo, da fare insieme. Un poetare scanzonato, nutrimento ulteriore di questo individuo bicefalo.
[con Valentina Manusia]
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Il cerchio del mare
"Ascolta.
Fino a Moggio di Terra, fino all’orlo della scogliera saresti dovuta arrivare, per riuscire a vederli dall’alto nel loro barchino, assicurato alla cima d’ormeggio contro una premonizione di maestrale.
Ma il tuo sguardo allora avrebbe spaziato intorno, come sempre accade quando si guadagna un panorama e le sirene della circolarità involontaria hanno la meglio sulla ricerca per l’identificazione.
Che riemergerà solo dopo.
E dunque elenchi lo stupore consueto e inconsumabile.
Davanti, all’altezza esatta degli occhi: l’orizzonte, la linea di rame in fusione.
Compiutamente reale solo in quanto condanna alla perpetua astrattezza, confine imprendibile del rotolìo terrestre tra la vista e il tutto.
Sopra quello, e a correre per gran parte dell’esame angolare: il ventaglio del cielo, semplicemente – come vuoi allitterarlo ?
Sta lì e ti confondi, al pari della prima volta.
Anzi di più, perché tra i mammiferi abbiamo memoria e coscienza, e l’una dell’altra, e il cielo che guardo mi riflette ogni visita passata, e la poesia che lo celebra e il dipinto che lo riquadra e la musica che lo mira invano a bersaglio.
Il cielo dell’ora rossa, era, e rosse non poche nuvole accatastate un palmo sopra il mare.
Sotto, dal convesso limite che annega il sole – il sole, moneta – fino alla perpendicolare del mento, appunto il mare: ciò che mai è in quiete, l’ipnosi increspata nel trapasso del giorno.
Blu, se nominare un colore bastasse a circoscriverlo, questo Tirreno di Ventotene.
E sul suo schermo a trapezio, le evoluzioni dei colombacci, delle berte in coppia che – diresti senza sorprenderti – giocano infantilmente sui soffi ascensionali e poi tornano ad ammirarsi dalle rocce in dirupo.
Giacché quel panorama fluido non si preclude la solidità, giacché i tuoi piedi avresti visto aderire con qualche timore al grande sasso incastrato tra i mobili eterni dell’acqua e dell’aria, e Moggio di Terra – infatti – ti si rivelerebbe ancora di bruna scabrosità, di ginestre fatte arancio dalla luce radente, di zolle arenarie radicate l’una sull’altra per l’inconsapevole anfiteatro, di cespugli scuri e scrigni di lucertole che scommettono sul fortunale.
Tanto avresti guardato, respirando, assaporando le tue labbra e il sale e il diminuito calore sul dorso delle mani e sulla buccia dei pensieri.
E poi, saldato ogni tributo: il conforto della presenza umana.
All’ancora, molti metri sotto di te, classico scafo in burro e ciliegio dell’altro secolo, ecco la tana di quei due, a tentare anche quella notte la sorte del galleggiamento.
Come peraltro sai di ogni storia che ti narro.
Ma questa storia è anche la tua.
E mia.
E dal suo inizio a stanotte, a questa nostra di nuova luna, lune a decine celavano e mostravano e celavano il volto, sempre lo stesso agli occhi di noi tutti.
Io bambina, io sicura, dea, ninfa, donna, io lungocrinita, domata, arresa, vuota, libera.
Mio padre, e tra i suoi – occhi – e il cielo, lenti spesse ed esagone, lui dolce, infero, uomo, d’uomini numeratore.
La mamma, esatta, distante, distratta, arco e ancora bersaglio.
Tu, figlia mia, stella sorgente e di poca aria rifratta, tu che hai sete, tu spugna e seme e ombra che si allunga, rossa di sabbia e clessidra, misura, tu numero semplice.
E l'altro, il ragazzo che mi versava la tenerezza di pensare te prima di te, lui pure avrà visto altri mesi.
Non lo so.
Quel che so sarà detto, e sul mare delle parole tra un’isola e l’altra del ricordo veridico seguiremo i dorsi affioranti d’ossidiana – costellazione di memorie più lasche – e, alla bisogna, di benigni cetacei solo probabili, e infine a bracciate procederemo di umile verosimiglianza.
Ma un’isola è ai nostri piedi, quella sera di giugno, di lentisco e gabbiani.
E uno di essi, ospite e candido ventaglio di coda, smussando gli angoli della discesa ti avrebbe rallentato fino alla ruga della risacca, fino alla barca ben sagomata, ai globi parabordi, alla cabina, non più di un becco dall'uomo e dalla donna.
A vedere dunque, e a sentire.
Non impedirtelo.
Sarò io - invisibile, ma non queste parole - al tuo fianco, a lenire, se credi ancora in me.
E in fondo alla strada, alla riga ultima, a capo del punto riavremo il nostro abbraccio salvifico.
E' tempo, dammi un cenno."
“Intanto, madre, questo.
Non so che nuvola
Sgranò di fiocchi candidi
Il quieto riparo egeo
Intima a un dio, certo
E tanto prodiga
Qui ciottoli rimodella
L'ilare onda e paziente
Contro un alito di spezia
Che raddolcisce l'erta
Là smaltate gocce
Di fede calcinata, diurna
Ridire il poco d'ombra intorno
Refrigerio al mulo ed al canuto
Io resto
Sasso ebbro al sole
Sospesa al mistero
E sicura
Dopo ore umane
Sarà notte
E da diverse danze
Il profilo amico a lambirmi, sarà
Di un dolce straniero
Ed è tempo, ora.
Un filo rosso, il nostro territorio comune, un retaggio, il peccato originale, lo spasmo eccitato, un’ossessione rimossa.
Ma forse addirittura la nostra chance, finalmente.
La normalità scomparve così, e ci ha lasciato in cambio questi vent'anni.
Tutti interi.
Un pegno: vederli in questo modo, talvolta.
E anche tu, ora lo so, ci investi sovente un pensiero irrisolto che si espande e piano s’increspa – Cosa fu ?
E chi ?
E dopo ?
Dopo era una bella mattina, una tarda mattina nitida e fredda che a inspirarla sgombrava spazio per un sole alto, schietto sul primo giorno dell’anno nuovo e virile sui capelli stesi alla brezza di una donna giovane, tipicamente odorosa di sonno e caffè.
Eri tu, ancora, ma qualcuno mancava già, e il vuoto e l’assenza possono ben indurre allo stupore.
Perfino a una certa agitazione.
Chi altri restava ?
Questione sottile, posso appena rispondere per me…
Ahi ! “Me”, direi, è una che la sera chiude gli occhi col solido convincimento di riaprirli col giorno; e “me” è anche un’altra che la mattina apre gli occhi solidamente convinta di averli chiusi per la notte.
Ed ecco dove ci si può attestare: sotto un certo profilo io non sono che quella specifica solidità, in difetto della quale ogni giorno e ogni notte gettano me in acque assai insidiose.
Ne siamo usciti e ne usciremo, certo, misurando le carte e più spesso pilotando a vista; ma prego, accetta che così tante volte aprire e chiudere questi occhi benedetti interpongano un che di opaco, di ambiguo – e vitale – tra la prima e l’ultima me.
Non m’impedirò di sentire, di sapere.
Né di dire a mia volta, però, sappilo.
L’amo è innescato e in buona acqua, ma occorre saper distogliere gli occhi da lenza e galleggiante, e spaziare e respirare e parlar d’altro.
Così pescare mi piace – e, ai pesci ?
Dal nostro più recente contatto la sola novità è nell’inquadratura alla finestra dello studiolo.
Proprio di fronte al mio bilocale, il superattico abusivo di odos Nikodimou è stato infine completato con dovizia di piani sfalsati, aggetti e rientranze, e di lodevoli tributi al lascito stilistico dell’Ellade intera – dal protogeometrico al neoalessandrino, tutto insieme per non sbagliare; e così io, non vista, dal mio affaccio prediletto ho gustato con avidità la serata inaugurale che il nuovo ricco ha offerto a eredi, amici e concorrenti.
A mezzanotte l’apice della celebrazione; il solenne scoprimento di ciò che ancora si celava dietro un drappo nero ma incombeva già quale vertice architettonico e summa ideologica di tutto il fabbricato: un paraboloide.
Il paraboloide – e ben più candido e vasto dello scorcio di Partenone che sempre vegliava su quiete e inquietudini, e che ormai per quanto io mi sguerci e addirittura mi sporga con sprezzo del rischio, potrò al più indovinare di là dallo smisurato piatto e sotto il suo pinnacolo drizzato contro il cielo.
Diversa da te, io non avrò altro erede che l’informe avanzare della natura cui anche l’umana ragione partecipa.
Ma a quest’ora della sera mi chiedo piuttosto che ruolo giochi in tutto ciò la paura ineffabile.
Che c’è, madre ?
Un prurito ti assilla il dorso della mano ?
E tu grattalo via, non è che zolfo in eccesso che riassomma e chiede congedo: biochimica più riflessi involontari.
Ma ecco: da strade diverse sta avanzando la condizione perché riemerga anche una quantità di altre cose che ci riguardano, così che una stagione possa sciogliersi in quella che le succede.
O come il nostro Mediterraneo, che si distende goccia a goccia nell’oceano sotto quella rupe impettita cui prescrisse la tettonica di far da velo e veicolo a tanto amplesso.
Ai piedi della Rocca, sul pelo di quell’acqua apolide, volentieri vedrei sguazzare le parole del nostro riconoscerci, i fremiti delle speranze comuni – se comuni ancora…
Ti sembro oscura ?
Non più di certi tuoi giorni dolenti, come lo sono a volte quelli dell’ottimista nata.
E chiariremo tutto, ciascuna pagherà per entrambe.
Perché a questo piano della realtà la partita non si disputa che con tale dispendio.
Perché sto imparando – stiamo imparando – che l’ordine si fa largo a fatica nel centro del caos, che la verità è in entrambi.
E che la linea che li separa è assai sfumata e porosa, come quella talmente tortuosa e mobile che segna il confine tra passato e futuro.
E’ già domani.
Sono insonnolita, e più tranquilla.
Soprattutto ho desiderio, sì, di arrivare in fondo – o almeno fino alla prossima curva.
Come di rado, la notte è ventilata su Atene.
Me lo dice il chiacchiericcio disteso dei passanti e il sussurro dei plumbaghi sul mio terrazzino.
C’è un molle ondeggiare, tutto intorno.
Solo, immoto sul cielo di raso, è il profilo di un grande orecchio elettronico.
E ricompreso dietro di esso, quello di un sogno antico di perfezione.
Ti ascolto."
Scrollando scivolando rimbalzando trasmettendo intuendo trattenendo ghignando leggendo stendendo aggomitolando ingrandendo schiudendo morendo tendendo adottando gettando accompagnando scrollando entrando torcendo rientrando fecondando dicendo specchiando lasciando inventando finendo scoppiando stiracchiando annotando ritraendo osservando giocando accompagnando.
La sagoma blubruno affusolata trascina sotto di sé un cono obliquo, d'ombra che verso la base perde in definizione agli orli e si amalgama con altro mare già diseredato della luce di sopra e a braccio a braccio, a scendere, sempre più opaco, scuro, freddo, di necessità autosufficiente. Lo seca la rotta binaria di una coppia di mammiferi tornati all'acqua per una potente trasvalutazione, di princìpi terrestri e del tempo lunghissimo occorso perché si elaborassero.
I due delfini adesso risalgono fino all'aria sbiancata dal giorno, che una resta invece delle remote prassi: respirano, di testa e sporgenti sull'orizzonte; l'altra, che allattano, non è quanto ora si rileva. Un'ellisse nera, occhio, lambita dal piano liquido indugia attratta dal complesso oggetto navigante.
Lo scafo riflette come quarzo le scintille dell'acqua crestata. L'ipotesi delle vele si corrobora nell'incontro con un vento orientale. Un uomo, impermeabilizzato in giallo, offre lo spessore delle proprie storie a una donna, folta e gaia di lana.
La bambina con gli occhi di mare si sporge allora con prudenza al parapetto. La sua mano ne stringe una più grande e salda, e con l'altra saluta due aquiloni di schiuma a pelo d'acqua: una coppia di delfini. Stanno giocando, domanda.
Stiamo giocando.
Stiamo scrollando, stiamo scivolando, stiamo piroettando, stiamo rimbalzando, stiamo saltellando, stiamo trasmettendo, stiamo covando, stiamo muovendo, stiamo tornando, stiamo intuendo, stiamo fondendo, stiamo evaporando, stiamo sollevando, stiamo approfittando, stiamo trattenendo, stiamo passando, stiamo entrando, stiamo rotolando, stiamo parlando, stiamo trattando, stiamo ghignando, stiamo scherzando, stiamo girando, stiamo sapendo, stiamo decidendo, stiamo scrivendo, stiamo leggendo, stiamo imponendo, stiamo procedendo, stiamo cercando, stiamo accingendo, stiamo torcendo, stiamo armando, stiamo drenando, stiamo stendendo, stiamo vedendo, stiamo asciugando, stiamo caracollando, stiamo guardando, stiamo fissando, stiamo invadendo, stiamo trovando, stiamo dipanando, stiamo aggomitolando, stiamo rientrando, stiamo visitando, stiamo strappando, stiamo espandendo, stiamo fregando, stiamo manifestando, stiamo reclinando, stiamo mentendo, stiamo ingrandendo, stiamo misurando, stiamo pilotando, stiamo ironizzando, stiamo incrociando, stiamo fecondando, stiamo avanzando, stiamo sfogliando, stiamo vomitando, stiamo crescendo, stiamo imparando, stiamo schiudendo, stiamo sporgendo, stiamo arricciando, stiamo afferrando, stiamo inspirando, stiamo occhieggiando, stiamo dicendo, stiamo avvolgendo, stiamo rimpicciolendo, stiamo sbiadendo, stiamo pensando, stiamo ricomprendendo, stiamo morendo, stiamo cadendo, stiamo distraendo, stiamo ritardando, stiamo sorridendo, stiamo specchiando, stiamo sostituendo, stiamo badando, stiamo provocando, stiamo accusando, stiamo incorniciando, stiamo conversando, stiamo tagliando, stiamo tendendo, stiamo lasciando, stiamo agitando, stiamo anticipando, stiamo danzando, stiamo meditando, stiamo respirando, stiamo impegnando, stiamo apparecchiando, stiamo scambiando, stiamo inventando, stiamo facendo, stiamo scaricando, stiamo adottando, stiamo ricopiando, stiamo arrivando, stiamo spostando, stiamo offendo, stiamo finendo, stiamo citando, stiamo eccitando, stiamo ascoltando, stiamo scorrendo, stiamo puntando, stiamo scoppiando, stiamo fiutando, stiamo spartendo, stiamo recintando, stiamo gettando, stiamo seguendo, stiamo stiracchiando, stiamo attraversando, stiamo ammettendo, stiamo mandando, stiamo tendando, stiamo annotando, stiamo conquistando, stiamo sfondando, stiamo indaffarando, stiamo ritraendo, stiamo ridacchiando, stiamo osservando, stiamo levigando.
Stiamo accompagnandovi nel fluidessere senza rotta.
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